1 giorno, partenza da Milano. Alle 20.30 ci troviamo nell’area gruppi del terminal 1 di aeroporto di Malpensa. Partiamo due ore dopo con l’Uzbekistan Airlines. Il volo è tranquillo, c’è chi riesce dormire un po’, c’è chi chiacchiera e chi legge la bella guida che abbiamo omaggiato a tutti i partecipanti. A.S. (significa ante scriptum) Appena incontrerò la guida spiegherò che il nostro gruppo è un gruppo davvero speciale, molto curioso, desideroso di fare qualche visita extra, e quindi ripeterò quello che ho già scritto al nostro corrispondente … di farci fare tutto ciò che contraddistingue un vero viaggiatore da un semplice turista. Infatti, ciò che desideriamo in tutti i nostri viaggi è di essere quanto più possibile viaggiatori, e quanto meno turisti di massa.

All’aeroporto siamo accolti dalla nostra guida Hurshid e due bravissimi autisti, Rashid e Erkin, dai denti d’oro, un segno distintivo di molti uzbeki. Dopo gli accurati controlli dei passaporti di ognuno in relazione al visto collettivo, ci trasferiamo verso la città di Khiva che dista 30 km da Urgench e che è la nostra prima tappa sulla Via della seta. Siamo pieni di stupore davanti le sue imponenti mura in adobe, ovvero di fango cotto al sole. Uno spettacolo che afferma che la creatività umana riesce ovunque e anche con pochi mezzi a disposizione far nascere il bello, anche nel cuore di deserto.  Siamo contentissimi quando ci accorgiamo che il nostro albergo della catena “Asia” è situato a pochi metri da esse, in prossimità di una delle porte della città, Ota darwoza di Itchan Kala.              

Raggiungiamo le nostre stanze, ampie e pulite, e ci ricarichiamo con una buona e abbondante colazione. Decidiamo di iniziare subito le visite partendo nelle prime ore del mattino, prima che il sole diventi troppo alto e caldo, rimandando il riposo per le ore più calde. Ci incamminiamo a piedi, e superando la vicinissima porta Ota darwoza, entriamo nella fiaba. Siamo dentro le mura e le meraviglie – impossibile elencarle tutte – si rivelano una dopo l’altra in tutta la loro bellezza. Itchan Kala, la fortezza interna o città vecchia, patrimonio UNESCO  contiene oltre 50 monumenti storici e 250 vecchie abitazioni, per la maggior parte risalenti dal XVIII al XIX secolo.            

La caratteristica più spettacolare dell’Itchan Kala sono le sue mura in mattoni e dalle quattro porte (Tosh Darwoza, porta sud; Ota Darwoza, porta ovest; Palvan Darwoza, porta est e Bogcha Darwoza,  porta nord) situate sui lati della fortezza rettangolare di cca 500 x 800 m. Le fondamenta delle mura risalgono al decimo secolo, ma le mura odierne, di circa 10 metri d’altezza, vennero erette nel tardo XVII secolo, ed in seguito restaurate.  Racchiudono diverse storiche madrase (scuole coraniche) tra cui Madrasa Allakuli Khan, Madrasa Mohammed Amin Khan, Madrasa Arab Mohammed Khan e Madrasa Mohammed Rahim Khan;  importanti mausolei di personaggi legati alla città come Sayid Alauddin e Pahlavon Mahmud; i palazzi e fortezze tra cui il Tosh-hovli,  Narallabay e Kuhna Ark; le Moschee Juma e Ak, e infine i famosi minareti Islam Hodja e Kalta Minar. Il complesso della Madrasa di gran visir Islom Hodja risale ai primi decenni del XX secolo. Sono i maestri artigiani del villaggio di Madir Bolt, Vaïzov e Madaminov che hanno creato le stupende piastrelle, soprattutto nella nicchia del mihrab. Oggi l’edificio ospita il Museo di Arti Applicate di Khiv, con l’omonimo minareto. Alcuni di noi salgono in cima al minareto, che ha la fisionomia di un faro e, con i suoi 57 metri, è il più alto della cittadina: le scale sono anguste, con gradini molto alti e irregolari. Il termine minareto che significa torre è usato in tutto il mondo per indicare torri dalle quali il muezzin richiama alla preghiera. Ma la storia dell’architettura ci dice che furono probabilmente le torri di vedetta e di segnalazione diffuse in epoca preislamica nelle regioni desertiche dell’Asia ad essere le sue antenate: il compito è simile, annunciare una cosa importante. Il Mausoleo di Pahlavon Mahmud è del 1362, ed è dedicato al poeta, filosofo e combattente che in seguito fu  scelto come il santo patrono della città. Il minareto Kalta Minarovvero “il corto” fu voluto dal khan Mohammed Amin.  Desiderava farlo così alto da poter essere visto anche dalla Bukhara, lontana 450 chilometri. Khan morì nel 1855, lasciandolo incompiuto, a circa un terzo della sua altezza. Suo figlio ebbe intenzione a terminarlo, ma i consiglieri lo dissuadessero, dicendo che, se intende a far questo, tutti si sarebbero ricordati di suo padre, ma nessuno di lui. Allora il nuovo khan decise di lasciarlo incompiuto … in ogni caso, il ricordo del Khan Mohammed Amin rimase. Dopo aver pranzato presso il ristorante Bir Gumbaz ci concediamo un breve riposo in hotel.  Era una saggia decisione perché fuori si sente il caldo. Ci aspetta l’antica e elegante Juma, Moschea del venerdì costruita a partire dell’VIII secolo, poi ricostruita nel 1788 con le 218 colonne lignee, magnificamente intagliate di cui le più antiche risalgono alla prima costruzione. Il Palazzo Tosh – Howli, il cui nome significa casa di pietra fu costruito tra il 1830 e il 1841 dal sovrano del khanato di Khiva Alla Kuli Khan,: conta oltre 270 stanze affacciate su tre cortili: Ichrat Khauli, corte della rappresentanza, Arz Khauli, dedicato alla giustizia e il corte del harem. Ma giustizia spesso confinava con crudeltà estrema: il suo primo architetto, Nourmouhamad Tadjikhan, fu impalato per aver dichiarato di essere impossibilitato nel completare la costruzione del palazzo in due anni. Certamente, alterniamo le visite con qualche compera in giro: dove se non qui, sulla via della seta, un luogo che da secoli era sinonimo di mercanteggiare, venere e comprare. La grande Via della Seta ha avuto un’influenza speciale, promuovendo non solo trasferimento di beni, ma anche di tecnologie, lingue, idee…  Come in tutti i luoghi turistici ci sono bancarelle che vendono un po’ di tutto, ma ci sono anche negozi di artigianato locale, specializati in diverse discipline tradizionali. C’è chi fa colbacchi in lana e pelliccia di pecora, ci sono laboratori di falegnami e di intagliatori, dove lavorano anche giovanissimi ragazzi; ci sono orefici e argentieri che creano splendidi gioielli per i quali Khiva è rinomata. Purtroppo nel passato Khiva fu famosa anche per un commercio non tanto piacevole da ricordare: dal XVI al XIX secolo, fu il mercato principale per la tratta degli schiavi di tutta l’Asia Centrale.  Abbiamo scelto di rillassarsi un po’, assistendo due spettacoli: il primo è di danze tradizionali, il secondo invece un’esibizione di acrobati-equilibristi. Soprattutto ci emozionano i bambini che prendono parte del gruppo degli incredibilmente bravi equilibristi. La guida ci spiega che per arrivare a questi livelli bisogna iniziare da piccoli, anzi piccolissimo. A volte guardando la loro esibizione sembra di esserci nel sogno, dove tutto diventa possibile e lieve, anche volare allargando le bracia. Proseguiamo, visitando Kukhana Ark, fortezza dentro la fortezza, la residenza dei sovrani di Khiva, eretta nel XII secolo da Ok Shih Bobo. Essendo una sede reale era munita di tutto il necessario come l’harem, la zecca, le scuderie, l’arsenale, la moschea e la prigione. Saliamo sul bastione Ak Cheikh Bobo, ovvero dello sceicco bianco, l’edificio più antico di Khiva da cui si gode una stupenda veduta della città. Di nuovo siamo tutti affascinati dalla altra prospettiva sulle splendide mura di fango che si snodano tra i bastioni sovrastando le porte e abbracciando il cuore antico della città.     

3. giorno, traversata del deserto. La giornata è dedicata alla trasferta: ci aspetta la traversata del deserto rosso Kyzyl Kum di  460 km, cioè di circa 10 ore di viaggio, per arrivare a Bukhara verso sera. Tuttavia, sarebbe sbagliato dire che sarà solo un tragitto noioso, nel deserto ci sono sempre mille cose da vedere, da sentire, da provare.  Prima di addentrarci nel deserto stepposo attraversiamo il grande fiume Amu Darya,poi ci ristoriamo con uno spuntino a base di melone, e ogni tanto ci fermiamo per godere i magnifici paesaggi che sempre ci accompagnano. Facciamo una sosta sulla riva del fiume,  ammirando l’altra sponda, Turkmena, con i  telefonini che stanno ricevendo i messaggi della loro rete. Poi ci fermiamo per salire sui resti, ormai arrugginiti, dei macchinari utensili della produzione sovietica.               

Per il pranzo abbiamo scelto un insolito “autogrill del deserto”, dove ci accoglie una lunga tavolata imbandita con le pietanze genuine e semplici. La guida ed io diamo una mano a servire ottima verdura e buon pane uzbeko, mentre un ragazzo del ristorantino si appresta a grigliare la gustosissima carne alla brace. Tutto è preparato apposta per noi e per alcuni altri ospiti locali che usano questa strada per lavoro. Infatti, sono inesistenti i turisti che optano di fare il tragitto da Khiva a Bukhara in pullman, e chi lo fa porta con se il pranzo al sacco. Ma questa è un esperienza unica e irrepetibile: infine cantiamo tutti insieme, qualcuno si mette anche a ballare. La strada è a tratti ricoperta di sabbia e ci sono i lavori in corso. Sta per calare la sera, quando scorgiamo Bukhara, la seconda meta della nostra via della seta. Una città importante perché vi era uno dei più grandi empori di tessuti e dei tappeti che affluivano dalle diverse parti del mondo antico,  conosciuta per la presenza e convivenza pacifica di numerose comunità appartenenti alle diverse religioni.             

Il nostro albergo è centralissimo; si trova di fronte alla piazza principale, a fianco dell’ingresso del grande bazar coperto. Dopo aver raggiunto le nostre stanze e fatto una doccia veloce, ci dirigiamo verso il ristorante Doston, presso una casa tipica dei benestanti bukhariani (spero che la parola che dovrebbe identificare gli abitanti della città sia giusta). Il locale è molto curato, con gli interni abbelliti da alcuni manufatti della produzione artigianale locale. Ma sopra tutto, si mangia molto bene. F. gioca perfino a fare la modella: si mette un bellissimo capotto in velluto nero con ricami dorati. Dopo la cena la nostra guida ci prepara una gradevole sorpresa. Chiama una sua amica che ci invita a casa sua. Camminiamo attraverso le strette viuzze del vecchio quartiere caratterizzato dalle case dei muri spogli in mattone cotto al sole, senza fineste, con qualche porta più o meno elaborata. Ma spalancata la porta della casa della signora che ci ha invitato, rimaniamo a bocca aperta: è una bellissima casa, che potrebbe facilmente portare il nome “museo”.  Scopriamo che la signora Mastura lavora come professoressa in una scuola di ricamo, anche lei un eccezionale ricamatrice. Come da usanza locale ci togliamo le scarpe ed entriamo in un’altra dimensione. La importanza storica e culturale delle rotte commerciali di una volta ci viene rivelata in tutto lo splendore che una dimora dei ricchi commercianti ebrei. Una testimonianza vivente della vita che fu una volta e che scorre tuttora. Ammiriamo dapprima l’elegante architettura che si snoda attorno al grande cortile centrale, poi il vestibolo che custodisce antichi rotoli della Torah, spalancando gli occhi su numerosi dettagli dell’arredamento: i muri ornati dai bianchissimi stucchi e dalle coloratissime maioliche, con le numerose elaborate nicchie,  che fungono da scafali adorni con delle porcellane, ceramiche e argenti, gli intarsi e legno intagliato. La ricamatrice infine comincia a sfoggiare i propri lavori : butta sull’enorme tappeto uno, due, tre poi decine di suzani, uno più bello dell’altro, ognuno con i propri fiori, melograni, uccellini, cerchi, alberi … seta su seta, cottone su cottone, luce su luce… ci risulta difficile andarsene via da tutta questa bellezza. Ci racconta che ha un bel negozio nelle vicinanze, invitandoci di venire domani. Sono andata nel pomeriggio. Bisogna pero tornare in albergo e riposare bene: domani iniziano le visite ufficiali.  

Kasthacilik“, il ricamo tradizionale uzbeko riflette il modo di vivere e le tradizioni, ma sopratutto l’amore per tutti gli esseri viventi.  Orna i più svariati manufatti con filo (di seta, cotone o lana) fatto all’uncinetto delle popolazioni dell’Asia centrale comprendendo tutto il ricamabile, dai drappi e indumenti fino a bardature per i cavalli.  Raffinati fili intreciati ricoprono copricapi “dupi”, “kalpok” o “tubeteika”, decorano vestiti femminili “kuylak” e maschili “chapan” e sopratutto ornano case uzbeke con  diversi tipi di “suzani”: “palak”, pannelli grandi, “parda”, tende, “kurpach”, tovaglie  e culle “gavora”. “Suzani”, il tessuto ricamato d’arredo è un termine che significa ricamato ad ago. L’area in cui vengono prodotti è una delle antiche tappe centrali della Via della Seta: quindi si producevano nelle manifatture di centri come Bukhara, Nurata, Samarcanda e Tashkent, ma anche nelle case semplici dei villaggi rurali. Le ricamatrici appartenevano in larga parte all’etnia uzbeka, di remota origine turco-mongola, ma anche a quella iranica, tagika e khirghiza. Tra tutte queste popolazioni l’arte tessile aveva ed ha un ruolo importanti iniziando a svilupparsi attraverso le scuole di ricamo a partire dal XVII secolo e raggiungendo apice a cavallo tra il XIX e XX secolo: i manufatti, che spaziano dalle finissime sete ai robusti feltri, si distinguono per la raffinatezza esecutiva e decorativa, per le fantasie ineguagliabili e per i significati iconografici e simbolici introvabili da altre parti. Le decorazioni traggono le origini negli antichi tessuti iranici dell’epoca sassanide, ornati da animali fantastici racchiusi dentro medaglioni tondeggianti, con tante altre influenze. Alcune componenti dei ornamenti hanno radici nel repertorio floreale delle genti nomadi turche o mongole, poi vi sono contributi della simbologia ancestrale e sciamanica, ma anche quelli di diverse confessioni religiose, con aggiunta dei apporti del “moderno” e raffinato stile urbano.  I significati di questi magnifici disegni sono tutt’ora oggetto di diversi studi antropologici: le mandorle sono un simbolo di eternità, i melegrane richiamano benessere e ricchezza, il peperoncino serve per allontanare la gelosia e il malocchio Tradizionalmente venivano ricamati dalle fanciulle da marito per il proprio corredo, e il loro impiego era molteplice: all’interno delle case erano impiegati come arazzi per le pareti, come tende per dividere gli ambienti, come copriletti e tovaglie e come arredi propiziatori per la fertilità dell’alcova nuziale. Gli artigiani di Bukhara preferiscono usare i punti “bosma”, “dol” e “iroki”, sui tessuti con delle cuciture e trame allentate.

4. giorno, Bukhara, la nobile. Dopo la prima colazione iniziamo ad esplorare la città. Le serrande dei negozi sono ancora abbassate ma le bancarelle ai bordi delle stradine che attraversiamo cominciano a riempirsi dei vari prodotti dell’artigianato locale, soprattutto tessile. Siamo giunti al mercato. Ammiriamo le diverse cupole che si innalzano agli incroci delle strade del mercato di Bukhara, chiamate “toq”, erette per regalare un po’ di ristoro ai commercianti spesso stanchi dopo i lunghissimi giorni passati in groppa ai cammelli. Oggi sono conservati alcuni dei più importanti toq, suddivisi per le merci che trattavano: tra essi Toq-i-Zargaron  (gioiellieri); Toq-i-Sarrafon (cambiavalute) e Toq-i-Telpak (cappellai). Iniziamo visitando le Madrase di Ulughbek e di  Abdul Aziz Khan poi ci fermiamo nella piazza dove spunta il noto minareto Kalon, simbolo della città con l’omonima moschea. Vistiamo (ed è una sorpresa, perché essendo attiva non risulta visitabile) la madrasa di Mir-i-Arabi, un splendido e prestigioso edifico voluto dallo sceicco yemenita sufi Abdullah Yamani. Abbiamo anche un po’ di tempo libero per le compere dandoci un appuntamento. C’è di tutto, i suzani, le tovaglie, le immancabili sciarpe in ottima seta uzbeka e qualche gioiello etnico, e quando ci troviamo, siamo tutti carichi di vari souvenir, uno più bello dell’altro. Io ho trovato delle forbici, mi diceva commerciante – le migliori al mondo. Scrivendo questo diario alcuni mesi dopo affermo che aveva ragione.  Segue la visita ad un laboratorio di tappeti – i nero-rossi bukhara – famosi in tutto il mondo. Pranziamo cercando di sbrigarsi quanto possibile, perché tutto ci piace moltissimo e vogliamo vedere quanto più possibile. Corriamo a vedere Ark, la fortezza con le sue torri, mura, scale e corridoi. C’è anche un piccolo museo di pregiati manoscritti, alcuni scritti sui fogli in seta. Ci fermiamo brevemente per dare un’occhiata al romantico Lyab-i Hauz che si specchia nell’antistante laghetto, composta da due madrase, Divanbeghi e Kukeldashe da un khonak per i dervisci.

Il nome Lyab-i Hauz viene tradotto come “l’orlo della piscina”.  Secondo una leggenda al posto del bel complesso di Lyab-i Hauz, edificato tra XVI e XVII sec, ci furono diverse case, che gran visir Nadir Divanbeghi comprò tutte, spianando in seguito il terreno per il suo progetto.  Rimaneva solo la casa di una donna ebrea senza famiglia, che non voleva venderla a nessun prezzo. Sul posto della casa doveva sorgere il khonak per i dervisci. Visir decise di usare la furbizia e ordinò di scavare una grande fossa accanto alla casa, supponendo che questa operazione la fece crollare. Ma la casa non crollò. Allora Visir ordinò di riempire la fossa d’acqua sperando che le zanzare apparse ben presto infastidirono la padrona. L’anziana finalmente accettò la proposta di venderla, ottenendo in cambio oltre i soldi anche la promessa della costruzione della sinagoga nel quartiere vicino.  

Nonostante meno presente della Samarcanda nell’immaginario comune occidentale, Bukhara, patrimonio UNESCO anch’essa,  lo merita a titolo pieno. Un detto uzbeko dice “Samarcanda è la meraviglia della terra, ma Bukhara è la meraviglia dello  spirito”. Detta  “la sacra” o “la nobile”, nel IX secolo fu la capitale del regno samanide. Fortunatamente il suo centro storico non fu compromesso dalla ricostruzione sovietica, cosi vanta un numero elevato di stupendi edifici molto ben conservati. È il tempo per un breve riposo in albergo, per poter uscire di nuovo alla sera. Alcuni  (io compresa) però saltano il riposo, passeggiando per conto suo, curiosando qua e la,  visitando altre moschee e musei. Infine ho comperato uno stupendo cappellino antico in velluto nero, confezionato nella Corasmia, abbelito da una bella “frangia” e le monetine in argento. Inoltre ho visitato il negozio della signora M., con una scelta che spazia dall’antiquariato fino all’abbigliamento tradizionale creato nei tempi recenti.  Dopo aver riposato visitiamo il semplice Mausoleo di Ismail Samani dal IX sec., eretto e decorato solo con del mattone. Il suo color deserto e la sua forma cubica ricordano la sacra Kaaba. Sulla testa porto il mio nuovo acquisto, troppo bello per non essere sfoggiato. In seguito visitiamo la piccola madrasa Chor Minor con quattro minareti,  simbolo delle quattro città del vasto mondo musulmano: Bukhara, Samarcanda, Damasco e Bagdad. Oggi le ultime due purtroppo vengono spesso citate non come le meraviglie del mondo antico, ma come teatri delle tristi vicende belliche. Anche oggi ceniamo in una location particolare: si tratta di una casa di campagna di ricchi commercianti, anch’essa con dei splendidi interni, vasti magazzini e un bel giardino. Dopo cena, nella hall dell’albergo, Hurshid tiene una interessantissima conferenza: presenta alcune foto raccontandoci l’“avventura della sua vita”, quando con gli amici andò a rintracciare le sponde del prosciugato lago Aral, tristemente conosciuto come uno dei maggiori disastri ambientali al mondo.</

5. giorno, in viaggio verso Samarcanda. Shakhsrisabz. Dopo la prima colazione, davanti all’albergo, riceviamo una “benedizione del viaggio” da parte di una vecchietta che brucia ramoscelli e ci “affumica” in cambio di pochi spiccioli. Iniziamo la seconda traversata del deserto, questa volta però viaggiamo seguendo un altro fiume, KashkaDarya.  Chiediamo dove possiamo fare qualche fermata originale e Hurshid ci propone una deviazione per breve fermata presso un mercato che si svolge ancora “per terra”, uno degli ultimi rimasti. Le camionette piene zeppe di meloni e di angurie, gli asini carichi di spezie, le bancarelle con sale e zucchero venduto in cubi, i tavolini con frutta e verdura, le vecchie auto con i bagagliai pieni di tacchini e galline vive, le tovaglie stese per terra con dei casalinghi e minuteria, i fili da cui pendono tessuti di tutti i tipi, dall’ottimo cotone uzbeko, al tessuto sintetico con i ricami sgargianti made in China… Alcuni hanno dollari con cui vogliono comprare qualche pezzo di stoffa, ma nessuno dei mercanti lo conosce.  I bambini cavalcano e impennano asini apposta per noi per farsi filmare, le donne ci salutano con dei sorrisi con dei denti d’oro invitandoci a fare le foto insieme. Siamo così presi dal mercato che ci fermiamo molto tempo in più rispetto la breve sosta prevista, e la guida deve richiamarci all’ordine. Proseguendo lungo la strada incontriamo diversi mezzi agricoli di produzione sovietica, alcune pompe per l’estrazione di petrolio, diversi villaggi e, ovviamente tanta sabbia. Pranziamo in un semplice agriturismo alla periferia di Shakhrisabz, la città natale di Tamerlano. Amir Temur Lenk (emiro Timur lo zoppo, nomignolo affibbiatogli  dagli iraniani è nato nel 1336 in un villaggio vicino a Kesh in Transaxonia. Il nome Shakhrisabz è tagiko e significa “città verde”. Nel medioevo la città fu chiamata Kesh, ma è diventata importante solo nel XIV secolo con Amir Temur che la governava da quando aveva venticinque anni.  Era un condottiero temibile che ha sconfitto turchi e l’Orda d’Oro, che ha combattuto armeni, georgiani e iraniani, che ha sottomesso l’India e l’Asia Minore, e le città europee come Kiev e Mosca. Il suo regno, detto Movarounnahr si estendeva dall’Egitto a Kashgar, con la Samarcanda capitale. Shakhrizabz, la citta natale fu considerata come una seconda capitale. Temur mori il 19 febbraio 1405 in Otrar oggi in Kazakhstan. Si narra che egli desiderava essere sepolto a Shakhrisabz, ma per le difficoltà dovute a diversi metri di neve caduta sulle strade, la rotta fu cambiata e i suoi resti mortali furono portati  a Samarcanda dove giace tuttora. Forse i motivi della sepoltura nella capitale erano più politici che meteorologici, ma leggenda è comunque – come tutte quelle che stiamo sentendo – molto bella.               

Il complesso monumentale comprende le rovine del palazzo Ak-Saray, il mausoleo di fratello Jakhongir Dorut-Saodat , il mausoleo della sua guida spirituale Shamseddin Kulyal detto Dorut-Tillavat ed infine la moschea Kok-Gumbaz. Patrimonio UNESCO da 2000, oggi si presenta come un enorme cantiere; sono in corso lavori sia di restauro sia di riqualifica urbana, tutti volti alla promozione dell’eroe nazionale, Tamerlano. Proseguiamo verso Samarcanda attraverso un paesaggio caratterizzato da colline verdi con frutteti e vigneti.  Kurshid mantiene la sua promessa: scendiamo per vedere una coltivazione di cottone, purtroppo responsabile per il prosciugamento del lago di Aral. Ci sono sia i fiori che i fiocchi di questa bellissima pianta che conoscevamo finora sopratutto come prodotto finito, la tovaglia, il lenzuolo o la T-shirt.  E’ quasi buio quando iniziamo a scorgere le prime case della capitale di Tamerlano.  Hurshid è qui di casa, e il suo amore per la propria città si sente subito quando comincia raccontarla.         

Informazioni festival. Dato che proprio in quei giorni a Samarcanda è in corso il festival internazionale della musica folkloristica, (lo vediamo anche dal traffico) chiedo a Hurshid (senza farmi sentire da tutti) se è possibile assister ad uno spettacolo. Risponde che sarà molto difficile, perché non ci sono i biglietti ma solo inviti per la serata di domani. Aggiunge che proverà a trovare qualche via secondaria attraverso amici, parenti e conoscenti …. il metodo che funziona – purtroppo – in tutto il mondo.

Mentre procediamo verso l‘albergo, Hurshid ci racconta la storia dei luoghi che stiamo incontrando. Attraversiamo una zona residenziale creatasi a seguito dell’immigrazione russa; osserviamo la chiesa armena e quella russo-ortodossa, sedi delle banche e palazzi dell’ufficio postale e dei trasporti, tutti in stile liberty, come anche la villa in cui è ubicato il nostro hotel. Dopo aver preso le stanze, ceniamo in ristorante dell’albergo, molto chic. Dopo la cena ci accomodiamo in una ampia sala con un bel pianoforte, purtroppo non accordato da chi sa quando. Fa niente, la nostra pianista G. si mette “al lavoro” e tutti quanti iniziamo a cantare. Stiamo passando una bella sera. Decidiamo di fare due passi e Hurshid ci propone una gita in taxi fino alla imponente Registan. Mi correggo: e stata una bellissississima sera.     

Informazioni festival. Prima di andare a dormire mi ritrovo come sempre con la guida per fare la programmazione per il giorno dopo. Hurshid mi dice che ha già fatto qualche telefonata, e chiede di consegnargli il mio biglietto da visita, che risulto la proprietaria di un importante Tour Operator italiano e anche quello di Sara, che è il Sindaco di una città lombarda. Sono due cose che possono avere peso presso le autorità per concederci la possibilità di ottenere gli inviti e assistere alla serata – concerto presso le magnifiche strutture di madrase di Registan.

6. giorno, Samarcanda, la magica. Dopo la colazione iniziamo le visite di Samarcanda, coetanea di Roma, una delle città più antiche del mondo, fiorita nel corso dei secoli grazie alla sua posizione strategica lungo la via della seta. Nei diversi momenti storici fu la più ricca città dell’Asia Centrale. Molti sono i monumenti che raccontano la sua gloria, e bisogna fare una scelta. Iniziamo dal complesso di Gur Emir che contiene il mausoleo del suo cittadino più famoso, Amir Temur o Tamerlano. Oltre la tomba del condottiero, ci sono le tombe dei suoi figli e la tomba del adorato nipote Ulukhbek.  Si prosegue con la bellissima piazza Registan  il cui nome significa un luogo sabbioso con le sue tre imponenti madrase: la più antica, Madrasa di Ulukhbek del XV secolo,  e due del XVII secolo, Sher-Dor e Tiliya-Kari. Sono interamente ricoperte dalle magnifiche decorazioni in ceramica dei colori stupendi in tutte le sfumature dei azzurri, blu e bianchi. Nonostante diversi cambiamenti avvenuti nel corso dei secoli, la piazza è riuscita a conservare l’atmosfera originale. La sua costruzione iniziò nel periodo di Tamerlano, nella seconda metà del XIV secolo proseguendo con le costruzioni volute dal suo nipote Ulukhbek nella prima metà del XV secolo, concludendosi duecento anni dopo, nel XVII secolo con Bakhadur Yalangtush Biy. Il complesso è circondato da meravigliosi giardini  ma anche da un lungo recinto sorvegliato dai poliziotti. C’è il Festival, e noi, come molti altri turisti che si lamentano non possiamo scendere fino alle madrase per ammirarle da vicino, quindi ci facciamo a vicenda le foto: di gruppo, da soli, in coppia. Come ho già detto all’inizio di questo racconto, non siamo turisti comuni: abbiamo la nostra buona stella che ci guarda dall’alto. 

Informazioni festival: Hurshid è quasi sicuro di poter avere gli inviti, ha già incontrato gli organizzatori stamattina. Ogni tanto telefona, dovrà abbandonarci nel ora del pranzo, non promettendo niente fino a quando non avrà i biglietti di tutti in tasca. La questione sta diventando un racconto giallo              

Giriamo attorno al complesso di Registan: andiamo a visitare la moschea di Bibi Khanum. Al centro del cortile si trova un enorme leggio in marmo grigio della Mongolia, sul quale per secoli fu appoggiato il più grande Corano del mondo, portato a Samarkanda da Osman Hazrat, un cugino di Maometto. Il corano pesa 300 chili, ed è uno tra i più antichi (è del VIII sec) e i più preziosi del mondo (rivestito di oro e argento). Fu rubato dagli zaristi russi e restituito solo 10 anni fa alla città di Tashkent, dove lo vedremo fra qualche giorno. Il leggio, “Lavha Quroni”, rimasto privo della sua funzione, è diventato per la gente un oggetto dotato di poteri soprannaturali. Secondo le credenze le ragazze troveranno marito se vi compiono un giro attorno, e le donne sterili avranno un figlio se passano tra le gambe di pietra che lo sostengono. La moschea attuale è stupenda, con tanto di archi alti 30 metri, ben quattro minareti, decine di cupole e centinaia di colonne di marmo bianco. In verità, la grande moschea che siamo abituati a conoscere come il nome Moschea di Bibi Khanum non è l’originale; l’antica moschea è molto più modesta e si trova rinchiusa tra le inferriate.     

Secondo una leggenda, la bellissima moglie di Amir Temur, Bibi Khanum voleva offrire questa moschea come regalo al marito per il suo ritorno dalla campagna dell’India. L’opera all’inizio procedeva bene, ma verso la fine si fermò. La principessa chiese spiegazioni e l’architetto dichiarò di essere innamorato di lei: non voleva proseguire senza un suo bacio. Furibonda per tale insulto, rispose che le sue parole possono costargli la vita, ma lui ribadì che in tal caso anche la moschea vedrà la sua fine. Lei alla fine accettò di essere baciata, ma avvicinatosi il momento mise un pezzo di stoffa – da cui secondo la leggenda trae l’origine il burka islamico tra le labbra dell’architetto e la propria guancia. Il bacio però era così bollente che bruciò l’ostacolo lasciando un’impronta indelebile sulla guancia della sfortunata Khanum. Tornato dalla guerra Amir Temur era meravigliato della maestosa costruzione, ma la sua gioia mutò in rabbia quando si accorse dell’impronta sulla guancia. Ordinò di arrestare e giustiziare sfortunato architetto che aveva profanato la guancia della sua amata. Egli, essendo un ingegnereabilissimo costruì per se due ali e volò via dal minareto della costruzione. Alla fine, accecato dall’ira e sconfitto nella sua intenzione, l’invincibile sovrano ordinò la distruzione dell’edificio, mentre Bibi Khanum dovette per sempre portare burka, per non indurre mai più nessuno al peccato con la sua incredibile bellezza.

Un’altra leggenda narra che la moschea fu costruita da Tamerlano stesso, sempre in onore della principessa mongola dal nome Bibi Khanum, la più amata delle sue nove mogli. Si dice che impiegò 90 elefanti portati dall’India per trasportare le pietre dalle cave, e che dava personalmente la carne di pecora ai muratori per invogliargli a lavorare meglio e con più vigore. La moschea attuale, come abbiamo già detto, è stupenda, con alti archi, quattro minareti, decine di cupole e centinaia di colonne di marmo bianco, ma all’inizio fu progettata male: subito dopo che furono innalzati primi archi, la costruzione iniziò a ripiegarsi su se stessa, perdendo i pezzi di mattoni e di maioliche. Tamerlano furibondo ordinò di tagliare la testa agli architetti colpevoli del progetto: uno di questi per non subire la tortura ed umiliazione preferì buttarsi dal minareto.    

Al termine della mattinata sostiamo al colorato mercato Siab, dove gli incontri e le trattative con i venditori sono molto spassose. Curiosiamo tra le spezie di cui alcune conosciamo e altre no, ammiriamo la frutta e la verdura che proviene maggiormente dalla Valle di Fergana.  Ciò che ci incuriosisce di più è la preparazione del pane, che viene cotto in una forma particolare. Segue il pranzo,  Hurshid ci abbandona e i nostri autisti Erkin e Rashid si prendono cura di tutti noi, in particolare di P. e F, le più anziane del nostro gruppo, facendo i cavalieri come si faceva una volta.           

Informazioni festival: come promesso,  Hurshid ci lascia da soli, partendo il taxi a trovare l’amico. Torna quando siamo alla frutta che si rivela diversa da quella del proverbio. La nostra guida ha ottenuto gli inviti. In tutto il mondo vale la regola che è un bene avere gli amici. Così stasera assisteremo al Festival folcloristico internazionale di Samarcanda.

Adesso bisogna affrettarsi davvero. Per non escludere niente dal programma, facciamo la nostra ultima visita della giornata: la cittadella sulla collina di Afrasiab. Le fonti iraniane riportate nel libro Shah-name – Il libro dei Re ci informano che il re Kay-Khosrov dopo aver eretto a Maracanda l’altare del fuoco sacro, vi fece costruire il tempio e poi le mura per proteggere la città  nata attorno il santuario. In seguito, la ricca Maracanda, la capitale achemenide della Sogdiana, fu distrutta da Alessandro Macedone nel IV sec a.C. Si riprese in fretta diventando la più importante città sulla via del fiorente commercio internazionale. A governarla si susseguono le dinastie eftalite, turche e perfino cinesi  della dinastia  Tan i quali hanno eretto i quattro anelli delle nuove mura, diversi templi zoroastriani, buddhisti, cristiani.  Di tutta questa ricchezza sono testimoni gli splendidi affreschi del palazzo del governatore, datati nel VIII secolo, dipinti poco prima della conquista araba.  Usciamo e ci dirigiamo verso l’albergo. Siamo molto disciplinati perché dobbiamo rispettare gli orari stabiliti da oramai celeberrimi “inviti”. Abbiamo un’oretta scarsa per “farsi belli”, e come ho il ferro da stiro in valigia lo faccio girare tra le stanze.   Nonostante poco tempo che avevamo a disposizione, siamo tutti pronti cinque minuti prima dell’ora prestabilita. Siamo “in gala” (quanto è possibile in un tour), anche Hurshid è in giacca e cravatta, io con il cappellino della Chorasmia. Ci rendiamo conto che mancano due biglietti, quindi bisogna inventare qualcosa. La necessità aguzza il genio, così decido che spiegherò agli addetti alla sicurezza che due signore più anziane hanno dimenticato propri inviti in albergo, perché erano troppo emozionate: il visto collettivo attesta che siamo un gruppo. Attorno la piazza Registan c’è una sicurezza incredibile, alla serata parteciperanno parecchi V.I.P e nostro pullman è obbligato a seguire un particolare itinerario.  Ci fa scendere al posto che ci indicano, camminiamo per cinque minuti e poi ci mettiamo in fila.  Senza alcun problema passiamo numerosi posti di controllo, i funzionari sono rigidissimi ma fila tutto liscio: metal detector, borse, inviti, visto, passaporti.             

Prosegue tutto per il meglio: abbiamo preso i nostri posti, siamo dentro il recinto del Festival, riconoscenti al Hurshid che ci ha procurato quest’emozione unica. Finalmente possiamo rilassarci. Dopo le giornate stancanti, incastonati insieme con gli altri ospiti della serata nella splendida cornice della piazza di Registan, ci facciamo coccolare dalla piacevole frescura del limpido crepuscolo di Samarcanda. Questo crepuscolo, memore di tanti raduni, ci racconta che quelli che venivano in questo luogo magico dopo aver percorso molta strada, dopo aver corso molti pericoli, dopo aver perso o guadagnato, dopo aver riso o pianto venivano qui, proprio come noi, nello stesso identico momento della giornata, nello stesso luogo,  per nutrirsi della pura bellezza, dimentichi di tutto ciò che era prima e che accadrà dopo.  Arrivavano commercianti e mendicanti, studiosi e pellegrini, ricchi e poveri.  Mi sento parte di tutto, insieme con noi oggi ci sono tante altre persone che non si conoscono, arrivate da tutte le parti del mondo, unite sotto e attorno questa rapsodia dei blu insieme con quelli che ci sono stati cento o duecento anni fa, e che torneranno anche l’anno prossimo o fra cent’anni.

Si fa buio, ammiriamo il cielo che diventa sempre più scuro, ammaliati dalla bellezza di tre grandi edifici, una bellezza grandiosa e allo stesso tempo intima, che ci è stata donata in modo gratuito e improvvisato,  percepita da ciascuno di noi in modo così singolare. Meno male che i giochi di luce sulle magnifiche facciate delle madrase, un po’ troppo  colorati e la musica un po troppo alta mi riportano dalle piccole nuvole bianche alle sedie della gradinata e al scambiare qualche parola con tutti. Mi vengono in mente parole di Vecchioni:  Corri cavallo, corri ti prego / Fino a Samarcanda io ti guiderò / Non ti fermare, vola ti prego / Corri come il vento che mi salverò … Non è poi cosi llontana Samarcanda … e chiudo.          

Durante la serata ecco che arriva anche il compito dell’accompagnatrice: A. ad un certo punto mi chiede di accompagnarlo ai servizi, ma non sappiamo dove si trovano. Scopriamo che per arrivare alla toilette dobbiamo entrare nella madrasa e da qui dobbiamo attraversare diversi cortili, tutti gli iwan e magnifici giardini. Lo stiamo facendo con grande gioia, parlando e fotografando le ragazze in costume che devono fare le prove. Torniamo, e poi tutti all’improvviso, due per due scoprono che devono andare in bagno. Il percorso verso le toilette è una vera rivelazione: è una visita che tutti gli turisti arrivati a Samarcanda  in questi giorni desideravano senza poter compierla, per via del Festival. Ci siamo riusciti, la buona stella ha funzionato anche questa volta. Il concerto di cui ho sentito solo l’inizio, è finito.

Ceniamo in un ristorante locale dove si canta e si balla: una famiglia uzbeka che mangia vicino al nostro tavolo fa amicizia con noi. Ci offrono da bere, balliamo insieme, facciamo le foto, scambiamo gli indirizzi e-mail. Felicissimi, torniamo in albergo e andiamo a nanna.             

7. giorno, Samarcanda, la magica. Facciamo la prima colazione molto presto, caricando le valigie sul pullman che parte per Taskent. Ieri abbiamo avuto uno splendido fuori programma, oggi dobbiamo sbrigarci un po’. Ci rechiamo di nuovo alla colle di Afrasiab, per fare la visita al complesso dell’osservatorio astronomico di Ulughbek, il grande astronomo, nipote di Tamerlano. Osservatorio del XV secolo, luogo di molte scoperte astronomiche era il più grande della sua epoca, ma in seguito fu dimenticato e poi riscoperto solo nel XX secolo dal archeologo russo Vyatkin Habiba Sultan che dedicò la sua vita a Samarcanda. Si tratta di una costruzione cilindrica di 46 m di diametro, con annesso quadrante di 40 metri e famoso arco di 63 m che veniva utilizzato per le misurazioni dei movimenti del Sole, della Luna e degli altri corpi celesti. Visitiamo anche l’attiguo museo, dove sono esposti libri e documenti con le testimonianze europee che vennero a sapere di questo luogo nel 1648, quando ad Oxford fu pubblicata una parte del famoso trattato di Ulukbekh,  il “Zidj” (tabelle),  un catalogo di oltre 1000 stelle.

Nelle vicinanze, sempre sulla collina si trova anche il Mausoleo di Khodja Doniyar, biblico profeta Daniele, rispettato dalle tre religioni del libro. Nel medioevo la sepoltura del profeta veniva localizzata nel medio oriente molto vagamente. Si ritiene che le sue spoglie furono portate qui da Tamerlano in segno di buon auspicio dalla località di Susa, in Iran, dove si trova quella creduta ad essere la prima tomba del profeta. Si tratta di un mausoleo stretto e lunghissimo: le dimensioni sono dovute alla leggenda che narra come il corpo del santo sta crescendo anche dopo la morte, il motivo per cui il sarcofago deve essere continuamente allungato. Leggenda è bella, ma la più veritiera è la teoria che sostiene che il sarcofago viene costruito così lungo per scoraggiare eventuali ladri, che vista la lunghezza non potevano  individuare l’esatta posizione dei resti.

Segue la visita alla necropoli di Shakh-i-Zinda, un complesso cimiteriale il cui nome significa scià vivente si è formato in otto secoli dal XI al XIX.  la cui nascita è legata al personaggio di Kussam-ibn Abbas, un cugino del profeta e perfetto sosia di Maometto, che nel VII secolo portò l’islam in queste terre. La leggenda narra che lui, dopo essere ferito a morte presso le mura di Samarcanda, ebbe la possibilità di rifugiarsi sotto la terra nel pozzo profondo del Giardino del Paradiso che si aprì apposta per lui: qui riprese la sua testa decapitata e continuò ad abitare fino ad oggi. Per entrarci dobbiamo salire i 40 gradini, il cui numero non è casuale.  E’ un numero del paradiso che allude all’infinito, utilizzato spesso nei testi sacri e profani: ricordiamo Ali Baba e quaranta ladroni, quaranta giorni della quaresima ecc. Secondo una credenza popolare, se si percorre con la fede la scala conferisce le forze magiche. I pellegrini devono contare i gradini pregando e se la quantità di gradini contati lungo la salita e nella discesa risulta uguale, il pellegrino sarà esaudito e purificato di tutti si sui peccati; se invece la quantità di gradini contati nella salita e nella discesa risulta diversa, il pellegrino deve ricompiere il suo pellegrinaggio. Gli edifici sono bellissimi, decorati con piastrelle, maioliche, mosaici, iscrizioni, mattoni intrecciati in modo curioso. C’è molto da vedere, rimangono nella mente il complesso con il Mausoleo e la Moschea di Kussam-ibn Abbas, il più antico, particolarmente bello e raffinato il Mausoleo di Shirin Bika Aga, sorella di Tamerlano e attigua insolita cripta detta  Ottangolare e infine l’imponente la porta  sud Darwazakhana costruita da Ulukbekh.

Segue il pranzo in un elegante ristorante, Samarkand, ubicato in una villa ottocentesca; servono il plov, il piatto tradizionale uzbeko a base di riso che Hurshid ha ordinato apposta per noi stamattina, spiegandoci che non si può andar via da Uzbekistan senza averlo assaggiato. Rispondo di ordinarlo non oggi, ma tra una settimana, così possiamo rimanere di più…

G. e suo marito C. che mi fanno compagnia davanti al ristorante, sono molto contenti del viaggio, quando sono partiti non immaginavano un paese così bello e interessante. Dopo il pranzo approfittiamo per fare una passeggiata per digerire anche perché siamo senza pullman che è partito per Tashkent la mattina stessa. Fa caldo, diamo un ultimo saluto a Samarcanda; passiamo accanto allo stadio ed entriamo nei alcuni supermarket del posto per vedere in che cosa consistono e quanto costano prodotti  destinati alla gente comune, pane, latte, riso, prodotti per l’igiene. Alla fine della passeggiata ci fermiamo in una boutique dove assistiamo a una sfilata di costumi storici uzbeki; la stilista che gestisce questo piccolo laboratorio è davvero bravissima, fa capi dell’abbigliamento che farebbero arrossire molti brand più famosi. Bisogna recarsi al Vokzal Samarkand ovvero alla stazione ferroviaria dove ci aspetta Afrasiab, la freccia rossa uzbeka che collega la capitale Tashkent con la magica Samarcanda, la capitale vecchia.       

Il treno è davvero mezzo ideale per spostarsi: veloce, pulito, comodo. E’ un ottima scelta della Geaway e del nostro corrispondente, occorre proprio dirlo. Abbiamo guadagnato tempo per le ultime visite e risparmiato tanta fatica; poi, avendo uno scomparto tutto per noi riusciamo a rilassarci un po’, chiacchierando e ammirando i paesaggi che scorrono veloci. In sole due ore e un quarto siamo a Tasheknt dove ci aspetta il pullman, le nostre valigie e i nostri bravi autisti, partiti stamattina. Certamente, la giornata non è finita qui: ci aspetta una cena tipica accompagnata dalle musiche e dalle danze tipiche. Incontriamo un altro gruppo che è partito stamattina da Samarcanda e che dall’inizio fa le stesse tappe come noi.  Ho chiesto tutti di non raccontare agli altri tutto ciò che abbiamo visto e fatto in questi giorni perché abbiamo viaggiato in modo particolare e unico, ma qualcuno sente qualche nostro commento su Registan e ci chiede come mai siamo riusciti… cerchiamo di far finta di niente, spostando attenzione verso altri argomenti.  Infine andiamo all’albergo:  “Lotte” è molto bello: spazioso, moderno, centrale, proprio sulla piazza del Teatro dell’opera “Alisher Navoi”: è uno spettacolo guardare la città dalla finestra.

7. giorno, Tashkent. Ultimo giorno e ultima tappa è Tashkent, antica Shash, la  capitale dell’Uzbekistan moderna. Visitiamo prima la piazza del teatro Navoi, poi altri quartieri moderni con la Piazza dell’Indipendenza e la Piazza di Tamerlano; ogni tanto qua e la spunta qualche edificio vecchio. In verità anche Tashkent ha origini antiche, con primi insediamenti del VI secolo a.C., fondata come città dagli Arabi nel 750. Per molto tempo fu controllata dalle popolazioni turkmene, finché non fu occupata dai Cinesi. Nel 1219 la città fu distrutta da Gengis Khan, per poi essere ricostruita alcuni anni dopo. Nel 1809 la città verrà annessa al Khanato; nel 1865 diventa parte dell’Impero russo.  Poco rimane del suo passato a causa di un terremoto che la distrusse nel 1966, ma ancora di più a causa della realizzazione di un piano urbanistico sovietico dell’inizio degli anni venti del XX secolo. Oggi, con i suoi due milioni di abitanti, Tashkent è una città tipica dell’Europa Orientale, ricca di monumentali edifici amministrativi, immensi parchi ed enormi condomini. La parte più antica è costituita dal complesso Hasti Imam che rappresenta il cuore spirituale di Tashkent, con la Madrassa Barak Khan, la Moschea Tila Shaikh e Mausoleo di Abu Bakhr. Vi è anche l’emporio dell’artigianato. Per noi significa la possibilità di comprare ultime collane, ultime scatole, ultime sciarpe, con dei bei esemplari di lavorazione in ikat. P. e S. sono rassegnati con la quantità dei acquisti che hanno fatto le loro mogli, sorelle R e A ma anche contenti perché sembra che loro mogli non hanno dimenticato proprio nessuno.           

Ikat, che significa nuvola, è una delle più interessanti lavorazioni dei tessuti nell’Asia centrale.  L’Ikat uzbeko presenta una grande varietà nella scelta di materiali da tingere.  Tecnicamente, l’ikat è una lavorazione detta “la tintura in filo a riserva”. Il procedimento della colorazione prevede che le parti dei filati vengono strettamente fasciati, tramite una particolare legatura, che fa in modo che queste parti del filato non possono assorbire il colore, mentre le parti non legate si colorano. Si distingue un ikat semplice, nel quale la tintura è praticata sui fili dell’ordito, da un ikat doppio, più complesso, nel quale sono trattati con analogo procedimento della fasciatura anche i fili della trama. Il trattamento può essere ripetuto diverse volte: più volte si “legano” i fili, più i colori dell’ikat sono numerosi, più è pregevole il prezioso tessuto finale.     

Dopo la visita alla moschea di Hasti Imam dove abbiamo potuto ammirare il Corano più antico al mondo, andiamo al mercato di Tashkent. Ultimissime compere sono quelle alimentari. Purtroppo non è possibile portare la frutta in Italia, uva e fichi provenienti dalla valle di Fergana sono spettacolari. C’è una varietà di merci che fa girare la testa. Prima di pranzo andiamo visitare il Museo delle arti applicate, dove facciamo un riassunto di tutto ciò che abbiamo visto in questo viaggio: i suzani, l’ikat, le tubeteike, i tappeti, i tavolini in legno dipinti, le ceramiche,  i gioielli , i fucili e le spade.  Ovviamente, sono oggetti da museo, con un’importanza culturale e storica, e di una lavorazione superba… Pranziamo in una trattoria tipica e poi ci rechiamo all’aeroporto. F. imbarca un suo acquisto speciale, un bel tavolino pieghevole dipinto. Un altra avventura sta per finire. Diciamo “addio” oppure un “arrivederci Uzbekistan”. A Milano è già domani.

8. giorno, Milano. Si vola sorvolando le città e deserti che abbiamo visitato in questi giorni passati così velocemente. Domani che diventa oggi. Siamo a casa, arricchiti di una esperienza straordinaria.   

ALLA SCOPERTA  DI  GIAVA,  SULAWESI  E  BALI   

GIAVA con guida locale PRAPTI

 

Questo viaggio nacque in modo del tutto particolare: dovevamo partire per Sud Africa, ma già a fine febbraio era tardi per le prenotazioni di gruppo e non era possibile garantire i voli e la sistemazione nel lodge desiderata.  Quindi abbiamo deciso di cambiare destinazine: mi ricordo ancora la presentazione del scorso marzo, accompagnata da un po’ di delusione. Qualche sera dopo, arrivò una telefonata da parte dei potenziali partecipanti riunitisi in casa di Sergio, con la proposta di un viaggio in Indonesia. L’operativo della Geaway si è messo subito alla ricerca dei voli, degli alberghi e delle guide. Non era facile perché in Indonesia l’estate è altissima stagione, ma ai primi di aprile abbiamo sistemato tutto.

17 agosto, giovedì. Ed eccoci pronti a partire. Sono le nove di mattina in punto, siamo in ventidue al check in di Emirates all’aeroporto di Malpensa; l’ultima partecipante, Laura, ci aspetterà a Singapore.  Il desiderio era prendere il volo della Singapore airlines, per evitare la procedura d’immigrazione e consecutivo ritiro bagagli al grande aeroporto di Shanghi , ma non c’erano posti disponibili.  Anche il nostro volo è pieno zeppo… quindi, partiamo per Singapore via Dubai.

18 agosto, venerdì. Atterriamo a Singapore e prima facciamo una lunga coda per fare l’immigrazione, in più salta fuori qualche disagio con le impronte digitali non leggibili e successive verifiche di documenti. Il problema sta nel fatto che abbiamo poco tempo a disposizione per imbarcarci sul volo per Yogyakarta, la capitale culturale dell’isola. Per fortuna al banco dell’Air Asia, una low cost che è unica a volare da Singapore a Jogyakarta,  ci aspetta Laura, arrivata dall’Australia che ha spiegato agli impiegati del tutte le problematiche che abbiamo incontrato. Siamo in ritardo, ma grazie a lei, ci aspettano ed in un lampo tutto il gruppo e tutti i bagagli sono a bordo. Finalmente, dopo tantissime ore di volo (meglio non contare) siamo atterrati a Giava, la più popolosa dalle 17000 isole Indonesiane. L’aeroporto di Jogya è vecchio e piccolo, ma facciamo i disbrighi doganali  in fretta. Ci attende il bus con la guida Prapti, una signora di origini balinesi. Subito andiamo a pranzare in una caratteristica locanda che si chiama Prambanan gallery, dove ci aspetta un buon buffet con i cibi locali. In seguito visitiamo il complesso dei templi induisti di Prambanan, una delle tante meraviglie dell’isola. Ammiriamo il tempio principale dedicato al dio Shiva, con pregiati bassorilievi che riportano le storie di Rama, Sinta e Hanuman narrate nel libro di Ramayana, importantissima saga epica delle culture indù. L’architettura ricorda quella dei celebri templi cambogiani di Angkor. Dopo la visita accurata del tempio più importante, abbiamo un po’ di tempo libero per curiosare nel sito che custodisce tanti altri tesori più piccoli. Alla fine prendiamo il trenino e ci spostiamo verso il vicino Candy Sewu, famoso per le figure dei guardiani che sorvegliano gli ingressi. A conclusione delle visite siamo tutti stanchissimi. Ci aspetta un po’ di strada per raggiungere il nostro albergo che non è lontano. Nonostante i chilometri non siano tanti, si viaggia molto lentamente perché il traffico sull’isola è incredibilmente intenso. Con oltre 165.000.000 di abitanti su un territorio che è un terzo dell’Italia, l’isola di Giava è uno dei territori più densamente popolati del mondo. Per arrivare al nostro Borobodur Heritage Hotel dobbiamo scendere dal pullman e prendere pullmini. Ceniamo, mentre i facchini recapitano i bagagli nelle stanze. L’albergo è splendido, una vera reggia immersa nel verdo con raffinati mobili e personale gentilissimo. Dopo la cena alcuni di non fanno un tufo in piscina, mentre altri preferiscono fare due passi nel magnifico giardino nel quale ha luogo una scenografica fiaccolata. Rientrata dalla piscina trovo Renato alla reception: nella loro stanza manca la valigia di sua moglie. Hanno già provato a controllare tutte le stanze del nostro gruppo, il pulmino che trasportava le valigie e tutti gli spazi della hall… La valigia sembra sparita nel nulla e si apre un vero giallo: siamo state io e la responsabile della reception a mettere i numeri delle stanze sui bagagli, il numero totale corrispondeva e non riusciamo a capire come mai non si trovi. Alla fine, dopo ripetuti tentativi gentili, “intimiamo” i ragazzi della reception di andare a controllare anche le stanze vuote del piano su cui è sistemato il gruppo, e la valigia finalmente salta fuori.  E’ tardi, sono già le undici passate, siamo in pista da ieri mattina, ovvero da più di 30 ore reali, calcolando il fuso orario. Domani ci aspetta l’alba al tempio di Borobodur.

19. agosto, sabato.  La sveglia è molto presto. Lasciamo le valigie fuori dalla porta delle stanze che ci raggiungeranno dopo la visita al tempio. Speriamo che nessuna si perda.  Camminiamo nel buio assoluto rischiarato dalla flebile luce dei telefonini e delle torce, avvicinandoci alla maestosa sagoma nera del tempio buddhista di Borobodur, una meraviglia architettonica nel cuore della giungla giavanese. Iniziamo la salita ammirando i bassorilievi in cui sono narrate le scene della vita di Buddha, che possiamo vedere solo nella fioca luce della grande torcia di Prapti. Ci spiega il significato di salita: è un percorso dell’ascesi. Mentre osserviamo i bassorilievi la luce del giorno avanza. Siamo giunti alla terrazza principale del tempio poco prima del momento in cui dovrebbe sorgere il sole. C’è tanta gente, tutti aspettano l’apparizione della sfera arancione. Alcuni dicono che da una settimana il sole “non sorgeva”, era tropo nuvolo. Anche oggi la giornata non è limpidissima, c’è tanta foschia, ma la nostra buona fortuna non ci abbandona nemmeno questa volta:  vediamo il disco infuocato levarsi pian piano sopra la giungla, tra tante statue di Buddha. La levataccia ci ha permesso di assistere ad un spettacolo indimenticabile, che ripaga tutta la fatica delle ultime ore. Scesi dal tempio ci viene offerta una buona colazione con biscotti e té, perfino ci regalano una sciarpetta ricordo. E’ la volta di proseguire per visitare il palazzo del Sultano della città di Surakarta, il cui nome significa la città guerriera e in seguito due templi situati in montagna, Candy Cetoh e Candy Sukuh.  abbiamo gia capito che Candy significa tempio. La strada è trafficatissima, quindi decidiamo di rimandare la visita al palazzo del sultano per il pomeriggio. Attraversiamo verdissimi monti coperti con dalle piantagioni di tè. Ci fermiamo perché nostro pullman non può proseguire in quanto la strada sta diventando sempre più stretta: ci spostiamo su due pullmini che ci porteranno verso il primo tempio. Candy Cetoh  è situato a 1200 m di altitudine, sotto il vulcano Lawu, che riusciamo solo intravedere, perché il cielo sopra questa isola purtroppo molto inquinata non è per niente limpido. E’ una zona amata dall’ ex-dittatore Suharto, che qui costruì alcune residenze di vacanza. I pullmini statali di linea che abbiamo dovuto prendere sono vecchi e fatiscenti, nonostante la nuova vernice applicata recentemente. Si surriscaldano velocemente e arrancano sulla ripida strada con sbuffi e fatica: sembra che non siano stati controllati da un meccanico da tempi bibblici. Per fortuna arriviamo alla meta sani, salvi e volonterosi di iniziare le visite. Gli inservienti del Candy Cetoh ci vestono con sarong, una specie di gonna, a quadrati bianchi e neri e cosi agghindati ci inoltriamo nel sito, frequentato tuttora da hindù giavanesi. Gli hindù rappresentano una minoranza religiosa di questa isola, dove la maggioranza è musulmana mentre gli hindù indobnesiani sono  concentrata sulla isola di Bali. Il complesso è molto bello, adorno di particolari porte in pietra che sembrano ali e piccoli padiglioni abelliti da elaborate decorazioni. Dopo la visita risaliamo sui pulmini e scendiamo verso il secondo tempio. Di dimensioni modeste, Candy Sukuh si annovera tra i più enigmatici templi di questa area geografica. Lo stile architettonico appare più vicino ai templi centroamericani che a quelli asiatici con la statuaria originalissima che presenta gli elementi iconografici dove si mescolano le divinità indù con tanti simboli erotici appartenenti ad un culto della fertilità preesistente all’arrivo delle grandi religioni induista e buddhista. Il tempo è un po’ nuvoloso, ma per fortuna prendiamo solo qualche gocciolina di pioggia. Segue il pranzo presso l’hotel-ristorante Jawa dwipa, situato in una bella posizione tra le montagne di origine vulcanica, con una grande piscina che sui bordi ha le sculture dei draghi di Komodo. Peccato che non abbiamo tempo di sfruttarla. Sul viaggio di rientro ci fermiamo al palazzo di Surakarta, ma non vediamo la sua splendia esposizione di vestiti, armi e gioielli perche chiusa di pomeriggio. Stamattina non potevamo fermarci, perché rischiavamo a non poter visitare ben più interessanti templi, anch’essi con orari di apertura mattinieri. Java sembra un’isola da visitare in elicottero, tanto è allucinante il traffico stradale. Ci consola il fatto che domani visiteremo il palazzo del Sultano di Jogyakarta con architettura e collezioni simili. Per oggi sarà già un ottimo risultato se riusciremo ad arrivare allo spettacolo di danza presso il teatro Parawisata a Jogya. Durante il trasferimento Prapti ci racconta la storia dell’isola, ci spiega il significato delle danze che andremo a vedere, ci parla delle usanze e della vita quotidiana. Essendo arrivati in tempo stiamo aspettando un altro gruppo che ha prenotato lo spettacolo: ma ci va bene perché abbiamo tempo di cenare in pace. Le pietanze del buffet sono davvero tante e tutte molto buone. Anche l’affascinante balletto di Ramayana che mima la lotta tra bene e male e la vittoria finale dell’amore di Sinta e Rama ci piace molto: i ballerini si esprimono con maestria acrobatica e squisita raffinatezza dei movimenti, sono altrettanto belli e ricercati costumi, trucco, maschere e acconciature. Finalmente arriviamo nel nostro hotel Sofitel Phoenix, una struttura centrale che appare molto elegante e raffinata, ma per essere sinceri bisogna ammettere che necessita una ristruturazione. Fa niente, anche così conserva il fascino di un gran albergo coloniale, e la cosa più importante che nonostante qualche ammacatura dei arredi e muri troviamo le stanze spaziose e pulite. E’ tardi, speriamo di riposare bene perché anche la domenica sarà molto impegnativa.

20. agosto, domenica. Con noi c’e don Franco, che inizierà la domenica con la Santa Messa nella Gereja Katolik Santo Albertus Agung ovvero la chiesa di San Alberto Magno. E’ vicina al nostro hotel e andiamo a piedi ammirando la vivacissima vita sulle strade della città. Ci accoglie un giovane prete che ci porta ad un angolo tranquillo in giardino retrostante alla chiesa, nella quale si celebra la Messa ordinaria. Torniamo in albergo per la colazione, carichiamo i bagagli sul pullman e iniziamo la nostra visita di Jogyakarta, la capitale storica e culturale di Giava.  Prima ci rechiamo allo studio di un importante pittore che realizza i quadri con la tradizionale tecnica batik. Assistiamo alla “nascita” dei coloratissimi e elaboratissimi disegni creati con tanta pazienza e maestria. Vengono effetuati in più riprese: perottenere ogni singolo colore il resto del tessuto viene coperto con la cera, tirato fuori, asciugato, e in seguito ricoperto di cera per ottenere un altro colore… e cosi via per 3 o 4, ma anche per più di 20 volte… ovviamente i più pregiati sono i dipinti con più colori. Sono davvero belli, diversi da quello che noi intendiamo per batik. Ovviamente, alcuni di noi comprano qualche quadretto come souvenir. Proseguiamo in tipico triciclo becak attraversando il caratteristico Kauman village per entrare nella zona di Kraton, ovvero il quartiere che ospita il palazzo del Sultano di Jogyakarta, tuttora abitato. Qui assistiamo ad un concerto di gamelan, la tipica orchestra composta di sole percussioni di tutti  tipi e dimensioni, accompagnato da un spettacolo di danza, sempre tratta da Ramayana. Una guida interna al Palazzo ci spiega la storia del Sultanato e ci mostra diversi padiglioni dove sono esposti oggetti appartenenti alla famiglia regnante: sonno molto belli gli abiti di corte, lavorati con la tecnica del microbatik, composto da minuscoli e accurati disegni, sono interessanti anche il reparto con i copricapi, le armi e i vecchi documenti.  Alcuni padiglioni sono in restauro, tra essi anche il più importante joglo, la tradizionale casa giavanese, con tetto a piramide con due punte, detto Padiglione d’oro, che serviva come sala dell’udienza. L’insieme degli edifici e giardini è imponente e architettonicamente interessantissimo,  purtroppo un po’ trasandato per i nostri standard. Rimaniamo sorpresi dal elevato numero della servitù del palazzo, tutti in divisa ed orgogliosi del loro servizio, pagato pochissimo. In seguito proseguiamo verso Taman Sari, il Palazzo dell’acqua, una specie di palazzo-giardino estivo, anch’esso appartenente al complesso di Kraton. Anche questo complesso è molto particolare e suggestivo, però anche qui ci vorrebbe un buon restauro. Bisogna dire la verità, cioé che il clima caldo umido in concomitanza con l’inquinamento fanno sì che i monumenti necessitano una cura permanente rendendo la manutenzione difficoltosa e costosa. Alla fine attraversiamo a piedi i quartieri residenziali della città vecchia, con negozi che vendono pregiate e costose marionette in pelle di bufalo e altrettanto cari e elaborati tradizionali coltelli kris. Ovviamente, ci sono anche calamite, cartoline e souvenir di poche rupie. Infine arriviamo al famoso e elegante ristorante Balé Raos che serve i piatti preferiti del sultano. Nonostante ottime recensioni, alta reputazione e prezzi salati, il cibo non ci piace moltissimo, si mangia meno bene che nei altri posti dove abbiamo mangiato. In seguito facciamo una breve visita a una fabbrica di batik stampato artigianale, e poi partiamo verso l’aeroporto. Facciamo check in seguito da un accurato controllo delle valigie; ci sequestrano i prodotti antizanzare e insetticidi chimici, vietati dalla compagnia indonesiana Garuda Air. Proteste non servono a niente, non possono essere portati a bordo per la salvaguardia della natura. L’aeroporto è vecchio e pieno di gente, non c’è un bar decente per prendere qualcosa, facciamo fatica a trovare posti dove sedersi nell’affollatissima sala d’attesa. Come ciliegina sulla torta, il nostro volo è in ritardo.  Ma sappiamo già che per visitare luoghi particolari ci vuole una buona dose di pazienza, e quando siamo finalmente in volo, ci rilassiamo.  Siamo comunque più che contenti. ci aspetta un altra isola, Sulawesi, una tra le più curiose al mondo.

23 ottobre. Ci troviamo alla sera all’aeroporto di Malpensa: oltre agli amici di vecchia data ci sono alcune persone che viaggiano con Geaway per la prima volta. Il volo è pieno, per fortuna – trattandosi del volo notturno – i nostri posti riservati sono tutti vicini. Dopo le solite procedure: bagagli, check-in, controlli, siamo finalmente in volo della Oman Air. I sedili sono comodi e larghi e corridoi un po’ stretti.  Aspettiamo la cena, e poi cerchiamo di dormire un po’.  Alle prime luci dell’alba saremo a Muscat.

24 ottobre. Il volo è arrivato in orario, e dopo aver fatto i nostri visti abbastanza in fretta, usciamo per incontrare la nostra guida Abdul Aziz che ci aspetta. Il significato di questo nome arabo è “servo dell’Onnipotente”. Lui è egiziano, i genitori erano insegnanti in Oman nei tempi (alcuni decenni fa) quando il sultano Qaboos aveva iniziato a costruire le scuole, allora letteralmente inesistenti. Qābūs bin Saʿīd Āl Saʿīd, nato nel 1940, scomparso recentemente, nel  2020. E’ stato sultano per 50 anni, dopo aver rovesciato suo padre, Saʿīd bin Taymūr, con un colpo di Stato nel 1970. Educato in Inghilterra, si adoperò nel processo di modernizzazione del paese attuando una politica di riforme. Ci trasferiamo al nostro hotel: fa parte della catena Ramada, ed è ubicato in un bel quartiere residenziale, pieno di ambasciate. E’ vicino al mare. Facciamo la colazione e poi andiamo alle stanze per riposare, perché l’inizio delle visite è previsto nel pomeriggio. Dopo un’ora, la maggior parte del gruppo si ritrova alla vicina spiaggia, per fare una passeggiata e raccogliere le conchiglie.  Alcuni perfino fanno il bagno… sappiamo tutti che tra di noi c’è chi non resiste al richiamo del mare. Segue un ottimo pranzo e alle due e mezzo siamo tutti in pullman, pronti per esplorare Muscat. Attraversiamo diversi quartieri della città, ci fermiamo per immortalare con le nostre macchine fotografiche due celeberrimi forti portoghesi: Jalali e Mirani. Subito dopo ci rechiamo al museo Bait al Zubair che mette in mostra gli oggetti che illustrano la storia omanita, e alla fine andiamo ad ammirare l’esterno del particolarissimo e curatissimo palazzo reale Al Alam.

La sosta al mercato di Muttrah è oltre lo shopping anche una visita culturale: facciamo primi acquisti, seguiti dalla visita dell’esterno della stupenda Opera House, illuminata, voluta da Sultano, grande amante dell’opera, teatro e cultura in generale. E’ già la sera e sul piazzale davanti al edificio del Opera si svolge un concerto di alcuni famosi cantanti folk arabi.  Facciamo amicizie con gli artisti e con i locali che ci invitano di rimanere, ma abbiamo tempo contato perché dobbiamo ancora cenare. Per la cena siamo al Turkish diwan, ristorante dove ci servono diversi tipi di carne alla griglia e delle ottime cernie. Sarebbe bastato e avanzato se ci davano metà delle porzioni. Manca solo il vino che qui non servono. Si fa tardi, come sempre quando si è in viaggio: bisogna tornare al albergo.

25 ottobre. Iniziamo la giornata con un ottima colazione, carichiamo le valigie sul pullman e andiamo a visitare La Grande Moschea di Sultan Qaboos, inaugurata nel 2001. E’ una costruzione immensa di 40.000 m2 di superficie, tutta in pregiatissimi marmi. Stranamente, nonostante tutta questa ricchezza dei materiali utilizzati, l’edificio non risulta “sfarzoso”. I custodi della Moschea principale della città controllano l’abbigliamento molto rigorosamente – Giuditta perfino deve acquistare un abito “in regola”: per le donne capo coperto, maniche fino ai polsi e abito lungo fino a terra, per gli uomini pantaloni lunghi. Non bisogna aggiungere che tutti entriamo scalzi. Ci accoglie un splendido parco fiorito, il cielo azzurro che si specchia nel pavimento di marmo bianchissimo, le decorazioni delle nicchie laterali di colori delicati… Stupenda è la sala di preghiera maschile: dal soffitto pende un lampadario Swarovsky con un diametro di 14 m, si calpesta un tappeto di 70 x 60 m, con 1.700 milioni di nodi: a farlo sono state coinvolte 600 tessitrici dalla provincia di Khorasan in Iran. Nonostante l’aspetto moderno dell’Oman, il paese resta tuttora profondamente tradizionalista. La maggior parte degli omaniti sono musulmani della setta ibadita, uno dei più precoci movimenti fondamentalisti dell’islam, che si distingue per la sua dottrina conservatrice e il sistema di potere ereditario. Gli ibaditi sono l’unico ramo oggi esistente dei kharigiti, costituisce una “terza via” tra sunniti e sciiti, le cui origini risalgono ai primi tempi dell’Islam. Oltre nel Sultanato dell’Oman, alcune piccole comunità si trovano a Zanzibar e in alcune regioni dell’Algeria (Mzab), della Tunisia (isola di Gerba) e della Libia (Gebel Nefusa e Zuara). Nostro Aziz ci spiega come pregano mussulmani: tutti mettiamo insegnamento in pratica, facendo le prove.

Finita la visita della Moschea, proseguiamo verso Bimmah Sinkhole, dove andremo visitare una famosa dolina carsica, larga oltre 40 m. Una brutta scala in cemento ci fa scendere fino al livello dell’acqua cristallina, color verde smeraldo, piena di pesciolini addetti alla pedicure dei turisti. E’ freschissima e il luogo è incantevole: abbiamo fortuna che non è affollato. Proseguiamo fino a Wadi Shab Resort dove ci aspetta il pranzo. Il ristorante si trova sulla riva del mare e quindi approfittiamo di un bagno. Scattiamo qualche foto della nostra bella spiaggia, qualche foto di Wadi Shab, sovrastato (e deturpato) da un ponte. In lontananza si vedono le rovine di antica città di Qalhat, ora in restauro, con la tomba di Bibi Maryam, una principessa locale. Proseguiamo verso Wadi Tiwi, dove facciamo una lunga passeggiata: Antonio e Bruna stanno cercando di scambiare due parole con dei abitanti della zona, e tra il linguaggio di segni e sorrisi riescono ad intendersi. Passeggiando ammiriamo un corso d’acqua incastonato tra enormi massi bianchi e l’adiacente sistema di irrigazione che serpeggia in mezzo dei bananeti. Ci sono molte piante di frutto e diversi fiori che non conosciamo: Riccardo coglie un bellissimo fiore che il “botanico” Terenzio cerca di riconoscere, ma senza successo. In tal punto interviene Aziz spiegando che è velenoso; quindi nostri due gentiluomini cambiano genere e regalano alle loro rispettive signore Graziella e Angela due piccolissime angurie, anch’esse appartenenti ad una specie mai vista prima … Ci piacerebbe rimanere ancora presso il paradisiaco wadi, ma dobbiamo partire per arrivare presto alla cena. La ragione è che subito dopo andremo a visitare il Centro di protezione e di nidificazione delle tartarughe marine a Ras al Jinz, una visita che abbiamo aggiunto all’ultimo momento. L’albergo Sur Plaza ci offre un buffet spettacolare, con carne cotta alla brace al momento e tantissime pietanze a base di verdura che la accompagnano, tutte da provare.

Non possiamo esagerare: ci aspettano tartarughe. Arrivati alla riserva naturalistica di Ras al Jinz, dobbiamo aspettare un bel po’ nella reception dove è allestita una piccola mostra che racconta questi splendidi animali. Le tartarughe purtroppo non si erano viste nei giorni precedenti, ma dopo più di un’ora d’attesa arriva la notizia che sono approdate alla spiaggia: in caso contrario saremmo tornati all’albergo senza averle viste. Fortuna audaces iuvat, a confermare che tutti i nostri viaggi sono stati sempre favoriti da questa dea dagli occhi bendati.  La visita è costituita da un “safari” sulla spiaggia. Saliamo sui veicoli 4×4 accompagnati dai ranger della riserva e ci avviciniamo alla spiaggia. Ci invitano a scendere e a camminare in silenzio assoluto e senza luce, divisi in tre piccoli gruppi. Ci portano verso enormi buche dove ogni anno migliaia di tartarughe tornano a deporre le uova, guidate dalla nostalgia istintiva: tornano solo perché ci sono state nate. L’emozione che si prova a vederle è difficilissima da descrivere a parole: affaticate e tenaci rappresentano una bella immagine di maternità. Camminando nel buio Giulia è scivolata in una buca e si è fatta male al polso, per fortuna nel mio pronto soccorso ci sono la pomata e le polsiere che servono per alleviare il dolore e immobilizzare la mano: raccomandiamo a Giacomo di curarla come si deve, senza farle fare le valigie, che per domani vanno organizzate in maniera particolare. Torniamo in albergo che la mezzanotte è passata da più di un’ora. Stanchi, ma molto felici: la esperienza delle tartarughe è stata commovente.

26 ottobre. Dopo la buonissima colazione lasciamo l’albergo con i bagagli divisi in due gruppi: il “grosso” viaggerà in pullman fino a Nizwa, mentre il minimo necessario per una notte andrà con noi nel deserto. Iniziamo a visitare Sur, una splendida cittadina sul mare. Prima ci addentriamo al mercato del pesce, poi curiosiamo tra le navi esposte nella sezione al aperto del Museo navale, dove catturano la nostra attenzione diversi tipi di dhow, le famose imbarcazioni omanite prodotte  rigorosamente a mano. Segue una sosta alla piazza principale che si affaccia all’antico porto.

Alla fine andiamo a visitare un cantiere dove tuttora producono dhow”. Il dhow tradizionale e di solito in legno di teak, ma talvolta si costruisce anche in leggerissimo legno di mangrovia. E’ a vela latina triangolare, che permetteva di navigare di bolina, controvento. Normalmente ha uno o due alberi, secondo il tonnellaggio, inclinati verso la prua. Prua è leggerissima e appuntita, invece la poppa e quadrata e robusta. La vela è in pesante cotone grezzo, le cime di dura canapa, il fasciame veniva connesso tramite legature in fibra di cocco e impermeabilizzato con diverse mani di olio di pescecane e resina. Tutto lo scafo era costruito senza l’uso di chiodi di ferro; eventualmente si usavano quelli di legno: legature vere sono proprio le “cuciture” in fibra di cocco. La cucitura dava maggior garanzia di elasticità e robustezza rispetto a una chiodatura rozza; inoltre con questo sistema era più semplice provvedere ad una riparazione di fortuna. Gli Europei, abituati alla chiodatura, guardavano queste imbarcazioni con sospetto: Marco Polo riteneva che “non fosse di poco rischio navigare su queste barche”, Vasco da Gama le considerava “mal costruite e fragili”. Ma in realtà sono solo apparentemente fragili, sono agilissime e manovrabilissime, apprezzate oramai in tutto il mondo… Nella fabbrica possiamo ammirare da vivo la costruzione di un’esemplare di dhow: tutto in legno, compresi i chiodi è di una linea bellissima ed è – ovviamente – molto costoso, perché fatto interamente a mano, da mano d’opera straniera, che costa molto meno di quella locale. E’ una storia che si ripete in tutto il mondo – gli immigrati – in questo caso pakistani, afgani e indiani – spesso portano sulle proprie spalle l’economia dei paesi ospiti, senza essere considerati come meritano per il loro ruolo. Saliamo sul pullman solo per raggiungere i nostri 4×4, portando con se solo il necessario dei bagagli per passare la notte nel campo tendato.  Ma prima di addentrarsi nel deserto i nostri autisti ci portano a Wadi Bani Khalid, dove scendiamo per ammirare lo splendido connubio tra natura e ingegno umano: gli aflaj. Si percorre un piccolo sentiero di pietra in mezzo di un palmeto, che costeggia l’acqua affiancato da immancabile falaj (in plurale aflaj), un particolare e antico sistema d’irrigazione omanita. Le costruzioni idrauliche di questo tipo risalgono al VI sec.,  anche se esistono le prove archeologiche che mostrano l’esistenza di alcuni precursori già nel 2500 a.C. Aflaj comportano un’equa divisione tra servizi e risorse limitate, per permetterne la sostenibilità. Grazie alla gravità, l’acqua viene canalizzata dal sottosuolo o da alcune sorgenti temporanee per fini agricoli o per usi domestici, spesso condotta dalla sorgente all’utilizzatore finale per molti chilometri. La ripartizione delle risorse idriche tra i vari villaggi, la costruzione e manutenzione è gestita tramite la mutua dipendenza. Sono state costruite molte torri di osservazione (e ne vedremo tante in corso del nostro giro) per controllare e difendere i sistemi di irrigazione e le condutture d’acqua. Attualmente il sistema di irrigazione è a rischio a causa del basso livello idrico delle falde acquifere sotterrane. I più importanti e più antichi esemplari sono tutelati dall’UNESCO.

Attraversiamo il corso d’acqua per arrivare al ristorantino rudimentale, sotto di cui si trova un laghetto dove è possibile fare il bagno – donne vestite, ovviamente. Invece, se si fa un po’ di sentiero non tanto comodo, si può arrivare ad un posto incantevole dove si può nuotare in costume da bagno occidentale, immergendosi in un’acqua limpidissima e godendo un scenario naturale mozzafiato: piccole gole, i canyon in miniatura, scivoli naturali, ponti di pietra che uniscono enormi massi…  Certamente, siamo andati tutti. Tuffarsi nell’acqua turchese è un’esperienza molto bella, ne vale la fatica. Abbiamo goduto tutti i minuti concessici: ci tocca a correre alle nostre Toyota, perché bisogna arrivare sulle dune – ed è tassativo – prima del  tramonto. Il tempo non è bellissimo, appena entrati nel deserto ci bagnano 2-3 gocce di pioggia, il fatto ché rappresenta una rarità. Questo deserto, detto Wahiba Sands fa parte del più grande deserto del sabbia al  mondo: Rub el Khali, il quarto vuoto. Arrivati al nostro campo, facciamo un velocissimo check-in. Per risolvere il problema della tripla che non si può avere, Franca e Paola staranno questa notte nello stesso bungalow, ormai sono diventate amiche. Riprendiamo di corsa le nostre macchine e risaliamo le dune rigorosamente nella auto chiusa, per la ripidità e per la sabbia che entrerebbe copiosa. Questa parte del deserto – in arabo Sharquiyah e conosciuto come Wahiba sands, dal nome delle tribù beduine che lo abitano.  I nostri autisti, tutti quanti beduini, alcuni molto giovani sono esperti e si divertono a guidare: ci fanno andare su e giù per le dune, corrono e fanno sorpassi, salgono e scendono, ci “spaventano” con le loro acrobazie. Sono bravissimi a guidare, e nonostante sembrano spericolati, siamo sicuri che con loro non accadrà alcun incidente. Sembra che la sabbia dorata scorre nel sangue dei beduini, insieme con globuli bianchi e rossi…Tutti proviamo brividi durante la corsa, alcuni gridano “fatemi scendere”, altri cercano di riprendere la corsa di altre macchine con i cellulari, divertendosi. Le dune sono ripidissime, con alcune salite e discese quasi perpendicolari. Infine scendiamo sulla cresta di una duna  molto alta in attesa di tramonto.

Camminiamo a piedi scalzi, facciamo le foto buffe e serie, di gruppo e da soli, con i beduini e con le Toyota, con la sabbia e con il cielo.  Con il mio “bravissimo” cellullare faccio le foto a Franca e a Giuliana, ma anche ai “professionisti”  Renzo e Armida, Mauro e Maura… Dopo il primo momento di schiamazzo generale, ognuno cerca un po’ di silenzio e di pace, ci allontaniamo gli uni dagli altri, ognuno cerca di vivere deserto a modo suo. Ogni persona è diversa, ogni deserto è diverso: ogni momento e diverso.  Guardiamo il sole, un po’offuscato dalla polvere che scende dietro l’altra alta duna. Il cielo non è   limpido, è quasi minaccioso, di faccia seria, un po’ grigia. Sabbia si increspa tutta nel momento di tramonto, dal colore che vira dall’ocra al rosso. Il vento che si sente nel silenzio, è silenzioso, afono anch’esso.  La temperatura scende all’improvviso. Vogliamo rimanere ancora,  ma il buio si fa sempre più pesto, si fa prepotente e ci fa scendere.  Riprendiamo la corsa in giù con i fari delle Toyota accesi: un altro spettacolo. Entriamo nelle nostre tende che sono in realtà dei comodi bungalow in muratura, per farci la doccia, e poi usciamo a concludere la serata con una cena tipica accompagnata da musica beduina. Alcuni di noi si mettono perfino a ballare, poi ci spostiamo in cortile dove ci fa la compagnia un bel falò acceso. Una specie di boma beduino, con racconti, scherzi e canti. Di nuovo dal cielo cade qualche goccia d’acqua, ma noi siamo riparati. Andiamo nei bungalow, essenziali ma accoglienti. Silvana, Paola e Giancarla hanno prenotato l’escursione in jeep per ammirare l’alba sulle dune, mentre Sergio, Pinuccia e Maria saliranno ai piedi. Io – insieme a diversi altri partecipanti – mi prometto di dormire, ma mi sveglio lo stesso prima dell’alba, trovando davanti il loro bungalow tutti quanti ad aspettare il sorgere del sole dal “basso” del nostro villaggio Oryx Camp.

27 ottobre.  Tutto il “grigiore” è stato ripulito durante la notte: il cielo è limpido, la sabbia è tutta oro chiaro, sembra che anche bianche dishdasha dei beduini sono più bianche del solito. Prima di partire, salutiamo i nostri autisti-beduini che si presentano con i loro cammelli. Partiamo e dopo un po’ di strada visitiamo il caratteristico villaggio Al-Mudairib. Sarebbe bello e auspicabile di tenerlo un po’ meglio nei termini di pulizia: infatti, entrati in una delle case di cui tetto si gode una stupenda vista, dovevamo camminare sulle scale piene di rifiuti, che non abbiamo trovati mai nei altri posti. Proseguiamo verso un altro sito, antico villaggio Al-Manzafa, vicino alla città di Ibra. Il villaggio è pericolante, con tanti edifici in rovina, ma palazzi di fango con le superbe finestre e particolari archi, con colonne e balaustre che testimoniano un passato glorioso sono di un fascino irresistibile. Aziz ed io dobbiamo in continuo ricordare di non salire sopra le strutture per non farsi del male. Facciamo anche una sosta al centro di Ibra, dove di mercoledì si tiene un vivace mercato delle donne: oggi pure c’è, ma con poche venditrici, alcune con le mascherine che coprono gli occhi e il viso intero. Comunque riusciamo a trovare alcune cosettine originali e sfiziose, come la polvere di kajal conservata nei contenitori di conchiglie, la particolare passamaneria fatta a mano, gli immancabili datteri e le elaborate mascherine che coprono il viso femminile. Aziz – d’accordo con me –  ha scelto di farci una sorpresa per il pranzo.

Si tratta di un ristorante molto tipico, molto tradizionale, molto locale e molto particolare: Rimel Yaman è tenuto da una famiglia jemenita. Per noi c’è l’agnello cotto in una grandissima buca col metodo che ha i “parenti” nella nostra Sardegna, dove si chiama “a carraxu” (cottura in buca interrata). Questa cottura speciale consiste nel riempire la buca di brace per scaldare le pareti; tolta la cenere si stendono sul fondo frasche di legni profumati adagiandovi sopra l’agnello e poi si ricopre con altre frasche; alla fine si chiude la buca con la terra e vi si accende sopra un fuoco. L’agnello era buonissimo, ristorante era un po’ rustico, Maria, Ida, Monica ed io abbiamo mangiato all’araba, per terra e senza uso delle posate, da un grande piatto d’argento dove tutte le pietanze erano servite insieme. Nonostante che in primo momento alcuni hanno espresso la perplessità riguardo la location, una locanda di campagna, alla fine tutti hanno apprezzato moltissimo la qualità del cibo e l’originalità del servizio. Aggiungo che sono proprio questi posti autentici e irripetibili ciò che fa di un viaggio “Il Viaggio”.

Dopo il pranzo ci dirigiamo alla cittadina di Bahla, circondata da mura in adobe lunghe dodici chilometri. E’ conosciuta per le ceramiche, per il suo splendido forte, patrimonio UNESCO costruito nel XIV secolo che tempo fa fu il centro della resistenza kharigita alla “normalizzazione” voluta dal califfo Hārūn al-Rashīd. Il forte è ancora in restauro, ma nostro bravissimo Aziz ci porta con le vie alternative (e un po’ pericolanti) a visitare il più possibile. Bahla è conosciuta come la città delle streghe le quali – secondo la legenda – erano imparentate con la maga della mitologia greca Circe, in quanto capaci anch’esse di tramutare esseri umani in animali. In piazza c’è ancora un antico albero con le catene a cui legavano i potentissimi jinn. Oggi in Oman è vietato anche parlarne di magia nera, ma le vecchie storie, come ben sappiamo, riescono ad evitare anche le leggi più severe. Proseguiamo per Jabrin, per visitare il famoso forte-castello, imponente e ben conservato, costruito nel 1670 dall’Imam Sultano Bin Saif Al Ya’Aruba. Il castello dalle pareti ocra sembra quasi una costruzione di sabbia che si erge al centro di un fitto palmeto. Attorno un cortile interno, come in una favola si snoda la complessa architettura dell’edificio: alcune stanze sono vaste e conservano meravigliosi soffitti affrescati, altre sono minuscole ed anguste, senza finestre.  Ci sono quelle con gli archi abbelliti dalle iscrizioni coraniche, quelle che vantano bellissime finestre traforate, poi ci sono stretti passaggi e stupende scalinate, c’è anche la prigione con una porta piccola piccola. Al pianterreno troviamo il magazzino dei datteri, il cui succo veniva convogliato negli appositi canali sotterranei, invece salendo sul terrazzo, troviamo una scuola coranica con una piccola moschea e una vista mozzafiato a 360 gradi.

E’ già la fine della giornata e ci dirigiamo verso Nizwa, dove ci aspettano le stanze e la cena nel nostro albergo. Una parte del gruppo dopo cena esce con Aziz in un locale a fumare narghilé: il locale e costituito dai gazebo con un maxi schermo, ed è frequentato da soli uomini. Ovviamente, non servono alcool, ma oltre il narghilé che proviamo a fumare tutti, prendiamo una bibita locale analcoolica e ci divertiamo un sacco …

28 ottobre. Al mattino ci rechiamo al mercato di Nizwa, deve iniziamo le nostre visite con il reparto della frutta e verdura. E’ di proporzioni industriali, e tutti facciamo le provviste dei datteri in quanto questo frutto nazionale omanita e davvero buono. Ci sono anche le spezie e vari prodotti artigianali, così ognuno gironzola per il resto del mercato secondo propri gusti. Nizwa è la città famosa per l’artigianato, quindi facciamo le più svariate compere: profumi, argento, diversi souvenir. Siccome il forte di Nizwa è chiuso per restauro, decidiamo di fare una passeggiata nel delizioso centro storico. Pur non potendo entrare, fotografiamo le mura e le porte e giriamo attorno la moschea di sultano Qaboos ammirando l’elegante minareto e la bella cupola ricoperta con le maioliche. In seguito scopriamo delle belle case private finemente decorate. Alla fine della visita ci aspettano le jeep per la gita sui monti Hajar, la parola che in arabo significa pietra: la vetta più alta è Jebel Shams (“La Montagna del Sole”) che supera 3000 metri ed è la più alta della penisola arabica.

Altro che deserto “piatto”… Pranziamo sulla terrazza del bellissimo Jebel Shams resort: ottimo pranzo è condito con aria frizzante e un panorama magnifico. C’è anche una piccola piscina, molto invitante, purtroppo riservata per agli ospiti dell’albergo. Ci consoliamo con il fatto che non abbiamo costumi da bagno con noi, rimasti sul pulmann. Altrimenti, avremo chiesto la possibilità di fere un tuffo. Dopo il pranzo riprendiamo le 4×4 che ci portano ad un punto panoramico con vista mozzafiato sulla valle e sui picchi montuosi. Nelle vicinanze si trovano le rocce con tanti fossili incastonati, e noi facciamo a gara per individuarli.  Infine iniziamo a scendere ammirando le cime caratterizzate con delle sagome veramente fantastiche: si tratta di rocce che sembrano di granito, ma in realtà sono le pietre calcaree molto friabili, modellate nel corso dei millenni dal mare e dai terremoti, e poi erose da piogge e vento che hanno portato nelle valli sottostanti un limo fertile e pietre più piccole.  Piene di fossili e di giacimenti di rame, le pietre sono un vero tesoro sia geologico sia naturalistico. Angelo fa qualche commento geologico. Appena scesi ci fermiamo per fare due passi e riprenderci dalla strada tortuosa : dall’altro lato c’è il villaggio abbandonato A’nakhar, che sembra uscito dai racconti di Mille e una Notte.  Anche il villaggio Misfat al-Abriyah, che visiteremo, produce da lontano l’impressione che la montagna abbia fatto germogliare case e fortini tra alberi e fiori. Tutti questi villaggi sono costruiti con dei mattoni di fango cotti al sole.

Misfat al-Abriyah si contraddistingue per le strette viuzze, le case tradizionali decorate (la più antica ha più di duecento anni) e alti edifici in argilla. Inoltre ci sono i canali per irrigazione e piccolo stabilimento termale separato per le donne. Gli abitanti di questo villaggio, situato a un’altitudine di circa 1.000 m, vivono sulla sommità della montagna, ai cui piedi si estendono le loro coltivazioni terrazzate. Gli uomini, che vi hanno estratto rocce e pietre, riducendole in polvere per farne una terra fertile propizia alla coltivazione, hanno saputo convogliare le acque in ormai ben conosciuti canali a spirale “falaj” per dissetare sia la terra che le persone. Riusciamo anche entrare in una casa, a dir poco pericolante, in cui vivono gli immigrati Pakistani che lavorano come muratori per il progetto della ristrutturazione del villaggio. Le condizioni delle loro abitazioni e della loro vita non si possono descrivere con le parole: bisogna entrare, vedere e parlare con loro. Sta scendendo la notte mentre attraversando un rigoglioso bananeto iniziamo la nostra ultima visita: il villaggio di al-Hamra. Feliciano è contento, finalmente attraversiamo un bananeto che è stato promesso durante la presentazione del viaggio. L’antica città di al-Hamra (la rossa) fu costruita 400 anni or sono durante la dinastia Ya’arubi. La parte vecchia è piuttosto disabitata anche se in alcune delle case ancora c’è chi vive secondo antiche tradizioni. Infatti, la nostra guida ha organizzato la visita ad una casa dove ci accolgono le donne che ci mostrano come si preparavano medicinali, come si tesseva, come si cucinava offrendoci alla fine il tipico caffè omanita, anch’esso un simbolo della nazione e della ospitalità.  Maria Grazia, Pinuccia, Maura, Milvia e tutte lealtre signore sono molto curiose: domandano, guardano, provano a fare. Alla fine è possibile comprare qualche prodotto. In realtà non c’e ne sono per tutti: poche scatoline con la pomata per mal di testa, qualche nastro fatto a mano, e niente altro.  

La casa possiede una imponente collezione di abiti tradizionali, di utensili e oggetti che facevano parte della vita quotidiana d’un tempo.  Facciamo una specie di festa in maschera, indossando bellissimi abiti che non sono in vendita: purtroppo, perché sarebbero dei bellissimi ricordi, ma è una fortuna per i portafogli perché molti di loro sono davvero preziosi, ricamati con argento e pietre dure.  Come consueto in albergo si arriverà tardi, dobbiamo avvisare di aspettarci con la cena. Saliamo nelle camere e andiamo a nanna. Dopo aver ordinato i appunti scendo  a fumare la sigaretta prima di dormire: sono con la testa piena di odori, suoni, colori e sapori che creano un caleidoscopio di emozioni e impressioni vissute in questi giorni. Fuori della porta dell’albergo c’è un ragazzo omanita, vestito con una dishdasha bianchissima e molto elegante, abbellita con il fiocco laterale profumatissimo. Sta aspettando un taxi.  Ciascuno si trova da una parte dell’ingresso in hotel, poi il ragazzo mi rivolge molto timidamente la parola in inglese chiedendomi da dove  provengo. Rispondo e ricambio con la stessa domanda. Mi dice che lui è di Dhofar, parte dell’ Oman che si trova al sud, famosa per l’incenso. Iniziamo a chiacchierare – è primo e unico incontro, a parte gli autisti – con un omanita ed è proprio per questo che lo voglio raccontare. Dice che si chiama Omar ed è a Nizwa perché si è appena laureato in informatica e comunicazione. Aggiunge che è il dodicesimo di 13 fratelli… è un po’ sorpreso quando racconto che ho una figlia sola, ingegnere, che in questo momento è a New York. Quando dico che sono sola qui in Oman e che mio marito è rimasto in Italia,  scappa un “How!?! ”, pieno di sorpresa e incredulità. Continua “for one omani lady is impossible to staying out of home alone in the night, but nobody touch you here, the Oman is very safe. We respect ladies”. Chiedo delle condizioni delle donne in Oman, e lui racconta che le donne omanite sono diverse, ma non in privato: mi dice che in casa si vestono come gli pare, che fumano e ricevono le amiche per discutere di tutto, che sono istruite e molto gentili e aperte. Arriva il suo taxi. Suppongo che abbia chiesto all’autista  di aspettare. Continuiamo a parlare: mi chiede cosa abbiamo visto, se mi piace il suo paese, cosa penso del loro stile di vita. Il ragazzo conclude con un bel pensiero dicendo cha ha studiato comunicazione perché vuole comunicare con tutto il mondo, aggiungendo che è bello poter conoscere le tradizioni e usanze degli altri. Spiega che per lui le tradizioni sono buone, e che cattive sono le esagerazioni che derivano dai fanatismi di ogni tipo, soprattutto quello religioso. Torno in stanza: non riesco prendere il sonno pur essendo stanca. Sono molto contenta che sono riuscita scambiare quattro chiacchere con un omanita giovane, perlopiù della provincia. Forse unica mancanza del nostro tour è quella del contato con qualche omanita doc: la nostra guida è bravissima, ma è egiziano, come la maggior parte delle guide; i camerieri e il personale dei ristoranti e alberghi sono tutti immigrati, ed è una caratteristica diffusa tra i locali che non vogliono fare certi lavori pesanti. Unici omaniti che abbiamo incontrato sono gli autisti beduini, le donne nei mercati e i musicisti nel campo Oryx, ma non parlavano inglese…

29 ottobre. Di buon mattino proseguiamo verso la città di Barka, accompagnati lungo le strada dalle alte cime dei monti Hajar.  Barka è una cittadina storica sulla costa, famosa per il suo mercato del pesce e il suo forte, anch’esso in restauro. La visita comunque non era nel programma, ma noi siamo soliti fare degli extra quando possiamo. Sembra che stanno ristrutturando tutte le fortezze del paese. Andiamo quindi subito al mercato per assistere alla curiosa asta del pesce: appena pescato il pesce viene messo su un basso tavolo di marmo e il battitore lo vende al miglior offerente;  poi man mano i prezzi scendono. Quello che rimane viene trasportato alle altre città: bisogna riconoschere che è sempre freschissimo, pescato nella giornata nelle pescose acque della provincia di Batinah. Troviamo alcuni pesci che riconosciamo, ma anche molte specie stranissime, mai viste prima. Dal momento che abbiamo ancora del tempo, facciamo un altro extra, un giro al mercato locale ché è veramente locale. Qui ci aspettano affari incredibili con dei  foulard e i profumi: la merce è  molto bella e di buona qualità, si vende a prezzi  che sono la metà o anche  un terzo di quelli che abbiamo incontrato a Nizwa o a Muscat.  Oltre noi non c’è un turista presso il mercato, e Aziz ha molto da fare per contrattare. Ci aspetta Nakhal, un’altra importante fortezza NON in restauro. E’ una  città costruita ai piedi del Jebel al Akhdar, su un punto strategico. Il forte che domina il paesaggio circostante è particolarmente suggestivo: svetta su di una roccia alta circa 200 m, alcune parti delle mura sono roccia viva ed intero complesso è molto ben conservato. Infatti, qui visitiamo bene tutta la formidabile struttura architettonica, con le funzioni difensive ed abitative. Le stanze sono destinate a diversi usi, ci sono passaggi, scalinate, torri, corridoi, camminate, feritoie. In alcune possiamo ammirare bel mobilio e interessantissime collezioni di armi… L’altra particolarità della zona attorno il forte sono le numerose sorgenti calde, una delle quali si trova a ridosso del fortezza. Quindi dopo averlo visitato andiamo gustare nostro pranzo a sacco (ottimo, sopra ogni aspettativa) proprio al bordo di uno dei questi pozzi profondi di acqua calda, chiamati “blue pools”, così detti per il colore dell’acqua piena di sedimenti minerali.

Il nostro “pozzo” si chiama Ayn Thowara, e per chi vuole si può fare il bagno, ovviamente signore devono essere vestite.  Quelli che si sono immersi dicono che non è particolarmente rinfrescante, quindi maggior parte opta per il vicino ruscello, anche solo per meditare e per immergere i piedi, come fa il nostro don Francesco.  Oggi abbiamo avuto il pranzo a sacco, preparatoci dall’albergo: quello che abbiamo pensato di non poter consumare abbiamo dedicato ad un orfanotrofio che si trova nel villaggio vicino. Alla fine siamo sulla strada del ritorno a Muscat. Ci piace molto quello che abbiamo visto, e vogliamo sfruttare anche ultime ore della nostra permanenza nel Paese.  Telefono all’corrispondente se ci può far avere il pullman a disposizione per domani mattina, per portarci verso la zona di Mutrah. Risponde di si, e siamo contenti tutti: ciascuno di noi ha già un piccolo progetto per domani. Riprendiamo le stanze del nostro hotel con qualche disguido: sembrava tutto pronto, il personale è gentilissimo, ma siamo costretti a lottare per alcuni asciugamani, per un letto della camera tripla, dovuto soprattutto al fatto che mano d’opera straniera non capisce né arabo né inglese. Dopo la ottima cena scopriamo che vicino al nostro albergo c’e un grande centro commerciale. E’ una scoperta recente della coppia Maura/Mauro, che ci dicono  che la vendono anche delle bellissime sciarpe… Le sciarpe ci mancano sempre, sono un oggetto must di tutti i viaggi che ho accompagnato. Quindi, dopo cena usciamo tutti per l’ultimo shopping. Strada facendo ci fermiamo per parlare con molti giovani che troviamo in giro. Finalmente un’altra occasione per parlare con i locali. Facciamo le foto insieme, e siamo particolarmente contenti per aver potuto parlare con le giovani omanite. Si fa tardi, se non ci sbrighiamo il nostro Centro Commerciale chiuderà. Alle dieci meno un quarto entriamo e alle dieci di sera un negozio con delle bellissime sciarpe e foulard, tutte prodotte in Kashmir per mercato omanita è svuotato. Gianni aiuta i commercianti ottenendo dei ottimi sconti per noi. Alla fine in molti – io compresa – abbiamo comprato questi foulard ricamati: sono del tipo che i omaniti usano per farsi il turbante. Prometto che domani chiederò ad Aziz come  fare per tramutare la sciarpa nello turbante: sarà bello imparare, anche perché il Sultano porta sempre questo tipo di copricapo, come possiamo vedere nelle tutte le sue foto ufficiali. Rientrati nelle nostre stanze  facciamo le valigie e andiamo a dormire.

30 ottobre. Dopo la colazione carichiamo i bagagli sul pullman e partiamo verso il mercato,  Muttrah. Ognuno di noi ha un itinerario personale per questa ultima mattina nella capitale. Un paio di persone resta in albergo per rilassarsi un po’: Anna, Angela, Giancarlo e Angelo rimangono. Il nostro splendido giro dell’Oman è stato un po’ faticoso: come sempre abbiamo aggiunto qualche visita e qualche esperienza….  La maggioranza trova le ultime riserve d’energia: Giuliana, Monica e Maria vogliono vedere il mercato del pesce, Armida e Renzo vogliono fare un giro della vecchia Mutrah, Mauro e Maura con la mamma Annamaria hanno un itinerario simile con aggiunta di lungomare, Maria Grazia, Feliciano, Luigia e Gianni vanno dapprima visitare la moschea e se c’è tempo anche il forte, don Francesco vuole fare le ultime foto delle navi, compresa quella del sultano ormeggiata nel porto… Infine c’è il girone degli ultimi acquisti, ovviamente necessari. Silvana e sorelle Paola e Giancarla devono prendere ultime pashmine, Ida desidera prendere un ultimo pensierino per la sua sorella, i nonni hanno bisogno di ultime magliettine per i nipotini, il resto ha bisogno degli ultimi souvenir perché ha dimenticato qualcuno in Italia a cui sarebbe bello portare un ricordo. Alla fine in queste tre ultime ore tutti facciamo un po’ di tutto, e quasi tutti torniamo al pullman carichi di qualche acquisto. Nell’ultimo momento Maura e Mauro hanno trovato un grande pezzo dell’ambra fossile che in Italia si rivelerà un falso. Proprio in questi giorni in cui scrivo un amico del altro gruppo che è andato in Oman lo sta riportando al negozio che ha restituito i soldi ad Aziz. Onestissimo.

Salutiamo nostro caro Aziz, salutiamo l’autista, facciamo check in spicchiamo in volo. Alla sera saremo a Milano, carichi soprattutto di emozioni e di ricordi. Per dire la verità siamo carichi anche di molte belle cose che abbiamo acquistato: nelle nostre valigie c’è incenso, datteri, profumi, argenti, tessuti, trucchi, magliette, calamite … siamo come una piccola carovana della Mille e una notte che torna dall’oriente.

DIARIO DI UN VIAGGIO IN CAMBOGIA

XX. Si può fare l’itinerario cambogiano arrivando in volo a Siem Reap, paese attorno a cui sorge uno dei più importanti siti archeologici del mondo, Angkor, e in seguito scendere in pullman verso Phnom Penh. Se invece si arriva via terra/via fiume a Phnom Penh, si salirà in pullman verso Siem Reap, facendo lo stesso itinerario al contrario.

XX la capitale, Phnom Penh. La variante in motonave. Carichiamo le valigie sui pullmini (il pullman non può arrivare al lodge), poi riprendiamo il nostro pullman e andiamo all’imbarcadero di Chau Doc: in Cambogia ci porterà una motonave. Dopo un’oretta si arriva al confine vietnamita, dove scendiamo, consegnando i soldi ad un’assistente che ci aiuterà ad ottenere i visti, che in questo caso costano non 30 ma 34US$. L. si è addormentata sulla prua, mentre A. sta prendendo il sole… Riprendiamo brevemente la barca, dopo pochi metri scendiamo un’altra volta, questa volta in Cambogia dove il visto sarà convalidato e dove ci faranno i controlli: prenderanno le impronte digitali, faranno rilevamento delle pupille, applicheranno sul passaporto un foglietto dell’immigrazione. C’è un po’ di coda, ma tutto fila liscio e sorprendentemente veloce.  Seguono altre tre ore di viaggio. Arrivando da Vientam, si può arrivare anche via terra, attraversando il fiume Mekong : nei tempi in cui ho iniziato a frequentare Cambogia c’era un traghetto che assomigliava a una gigantesca zattera, oggi c’è il ponte, recente e di una bella struttura… Prima dell’una siamo a Phnom Penh, la capitale cambogiana che ci accoglie con i suoi nuovissimi grattacieli, tra cui spiccano il Canadia Tower e il Vattanac Capital Tower, alta 183,8 metri, site nel cuore finanziario di Phnom Penh. Quest’ultima è una nuova icona della città sia perché rappresenta un modello di progettazione energeticamente efficiente sia perché nasce da un’interessante esperienza di “placemaking”. Sopra la pedana di vetro si staccano due torri di cui la più alta si ispira alla naga, simbolo della Cambogia e portatrice di buona fortuna, legata ad un’antica leggenda della principessa naga, metà donna metà cobra, genitrice mitica del popolo khmer. Ella viveva in un palazzo di cristallo, proteggendo il popolo con il suo celbre “ombrello”, racconto in seguito ripreso dalle storie che narrano la vita di Buddha. La originale facciata della torre “a scaglie di drago” consente di ottimizzare l’illuminazione naturale, mentre un sistema di ombreggiamento evita il surriscaldamento. Phnom Penh, con circa due milioni di abitanti (ufficiali) è una città in costante crescita. Città, chiamata in passato “perla d’oriente” è rinomata per un mix di architettura: la tradizionale khmer,  l’art noveaux francese e infine quella moderna e contemporanea, vantando tra le firme di grido anche  Le Corbusier. Sorgendo sulle sponde del fiume Mekong, tra il confluire del Tonle Sap e la diramazione del fiume Tonle Bassac, Phnom Penh è anche un porto fluviale di notevole importanza. A 40 anni dalla caduta del regime di Pol Pot e dei sanguinari Khmer Rossi, Phnom Penh inizia a costruire il proprio futuro, non senza gravi problemi di corruzione e crescita demografica incontrollata, che provocano una conseguente mancanza delle infrastrutture e un aumento dell’inquinamento. Incrociamo le dita augurando buona fortuna alla Cambogia. Allo sbarco ci attende la nostra guida Kin, con cui andiamo  a pranzare al ristorante Bopa, un bel ristorante sul fiume dove ci accolgono con il cibo cambogiano, fiori di loto e musica e danza tradizionali. Proseguiamo al albergo Sunway, centralissimo, dove ci aspetta cocktail di benvenuto. Accanto al hotel sorge Wat Phnom, la pagoda sulla collina, costruita nel 1372, che con i suoi 27 m rappresenta la struttura religiosa più alta della città. La leggenda racconta la storia della ricca vedova Penh che trovò un grande albero Koki nel fiume, accompagnato da quattro statue bronzee del Buddha. Per venerarle costruì prima un piccolo santuario su una collina artificiale, che presto diventò un importante luogo sacro dove molte persone venivano a pregare. Nel 1437, il Re Ponhea Yat ingrandì e rialzò ulteriormente la struttura, che in questo modo dominava il suo appena costruito Palazzo reale. Il tempio è stato ricostruito più volte, nel XIX secolo e ancora nel 1926. La pagoda è famosa per i suoi bei giardini, con un’enorme orologio creato dal prato e dalle siepi.  In seguito abbiamo in programma la visita dell’affascinante Mercato Centrale, molto pulito e molto ben organizzato. E’ formato da un edificio centrale in stile Art Decò con una cupola enorme e una serie di “ali” dove si trova davvero di tutto, dai gioielli al tessile, dalla tecnologia al cibo, compresi gli immancabili souvenir. L’ala più pittoresca è quella alimentare, dove alcuni imbustano le spezie e cibo secco e altri cucinano le pietanze… la più impressionante è la parte del Wet Market, un termine diventato mondialmente conosciuto per la vicenda del COVID, dove scorgiamo le persone che rincorrono un pesce o un serpente vivo fuggito dal secchio.  Per fortuna non abbiamo visto i pipistrelli…. Bellissima e profumatissima la parte in cui si vendono le composizioni floreali: gelsomini, fiori di loto, gigli, rose…  I volti segnati dal tempo, mani indaffarate e braccia forti che trasportano, smistano, ordinano, vendono; monaci, donne, bimbi, uomini, tutti che salutano con un sorriso gentile e mani che si congiungono in segno di rispetto… Ci piacerebbe rimanere di più, ma abbiamo poco tempo a disposizione, così dopo un’oretta passata al mercato ci spostiamo verso il complesso del Palazzo Reale con la Pagoda d’Argento. Tra gli edifici del Palazzo spicca la Sala del Trono, un elegantissimo spazio riservato alle cerimonie e agli incontri con personalità di alto rango, con pregiatissimi arredi. Segue la Sala del tesoro, una raccolta di gioielli e di oggetti preziosi appartenuti ai reali cambogiani.  Accanto, il Padiglione di Napoleone III, un’imponente struttura in ferro oggi in restauro, offerta in dono dall’imperatore francese al re Norodom nel 1876.  La pagoda d’argento – il Preah Keo Wat è il tempio ufficiale dei re della Cambogia, e come tale conserva molti tesori nazionali, tra cui spicca un piccolo Buddha di Smeraldo del XVII secolo, uguale a quello conservato a Bangkok (i due paesi si contendono l’originalità della statua).  Affascinante e pregiatissimo il Buddha Maitreya, fuso nel 1906, di 90 kg di oro puro, decorato con 9584 diamanti, di cui il più grande è di 25 carati. Ovviamente, è vietato fotografare. Durante il regno di Norodom Sihanouk, prima dell’epoca segnata dai terribili Khmer rossi, il pavimento era ricoperto con più di 5.000 piastrelle d’argento (da qui il nome), oggi conservate solo in parte, mentre l’esterno è rivestito di marmo bianco italiano. Belli anche gli affreschi nel corridoio del uno dei padiglioni che illustrano la storia di Rama, Sita e Hanuman, narrate nel poema epico Ramayana, uno dei più grandi e più importanti poemi epici dell’umanità. L’insieme degli edifici con dei tetti ornati dalle naga protettrici, è immerso in uno stupendo giardino, piantumato con dei bonsai, fiori esotici e meravigliose palme tra cui ci incuriosisce la palma imperiale, con la sua chioma a forma di ventaglio. A seguire Il Museo nazionale, situato a nord del Palazzo reale e ad est dell’Università reale di belle arti, a cui è legato da un lungo rapporto di collaborazione. Ospita una delle più grandi collezioni mondiali di oggetti d’arte khmer. Si tratta di oltre 14.000 oggetti che comprendono sculture in pietra, ceramiche, bronzi e reperti etnografici, anche preistorici. La maggioranza però appartiene al periodo aureo dell’era angkoriana. 

In una delle precedenti visite a Phnom Penh abbiamo fatto la visita a Wat Ounalom, la sede del patriarcato buddhista cambogiano, cove abita il loro capo e una numerosa comunità dei monaci. Fondato nel 1443, il complesso è formato da 44 edifici. Quasi annientato durante il regime di Pol Pot, a ripreso a vivere solo nei tempi recenti. Infatti, al secondo piano dell’edificio principale, una statua commemora Huot Tat, il celebre patriarca buddhista ucciso dai Khmer Rossi. La statua dell’anziano prelato, realizzata nel 1971, fu gettata nel Mekong dai khmer rossi per dimostrare che il buddhismo non aveva più alcun valore.

Abbiamo cercato di ritagliare un po’ di tempo, per poter visitare un luogo molto diverso che testimonia questo periodo terribile della storia cambogiana. È un fuori programma che merita di essere visto, anche se non si tratta di una visita piacevole. Toul Sleng o S-21 è testimonianza dei orrori vissuti sotto il regime di Pol Pot e i Khmer rossi. La nostra guida Kin ci racconta la propria esperienza vissuta nel 1975, quando l’intera Phnom Penh fu svuotata in un solo giorno. Ci parla come lui, allora bambino, venne deportato con la sua famiglia nella campagna, senza poter prendere nulla con sè, con un inganno: Pol Pot chiese a tutti di sgomberare la città per qualche giorno, per sfuggire il nemico. Chi tornava nella città scompariva, chi stava in campagna era tenuto ai lavori forzati. Mentre parla, ricorda la fame e le urla che si sentivano di notte,  ricorda familiari e conoscenti scomparsi. Tuol Sleng, o S-21, il cui nome significa collina degli alberi velenosi; la sigla S sta per sala e 21 è il codice del Santébal, la malfamata polizia di sicurezza. Il genocidio cambogiano è uno tra i più spietati della storia. Toul Sleng è solo una nel vasto sistema delle prigioni, che tra il 1975 e il 1979 imprigionò tra 17.000  e 25.000 persone, di maggioranza cambogiani, con soli 7 sopravvissuti. Tra essi c’erano anche molti khmer rossi e alcuni politici di alto grado accusati di tradimento; c’erano inoltre vietnamiti, laotiani, indiani, pakistani e perfino qualche occidentale. Pol Pot, il cui nome deriva da Politique potentiel, fu il leader dei khmer rossi. Nel triennio a partire dal “anno zero” cambogiano promosse un’economia agraria ultra-comunista, eliminando tutti coloro che considerava nemici: politici, medici, ingegneri, insegnanti, artisti… Cancellò tutti valori – arte e artigianato, scienze, istruzione, religione, famiglia… Abolì tutte le istituzioni: proprietà privata, negozi, scuole, denaro, poste … Annientò chiunque avesse un’educazione e un po’ di cultura, uccise tutti “inutili”, disabili, malati di mente, anziani che non potevano lavorare… I familiari dei prigionieri di solito erano portati verso un altro luogo di orrore, il campo di sterminio fuori città, Choueng Ek. Prima di diventare prigione la S-21 era un liceo. Cinque edifici della scuola furono recintati con filo spinato elettrificato, le classi trasformate in celle e stanze di tortura, con le finestre sbarrate con assi di ferro e filo spinato. Come già detto, a tale inferno sopravvissero solo 7 persono e solo perché le loro capacità erano indispensabili ai carcerieri. I capo carcere erano due: Nath e Deuch: il secondo fece uccidere il primo. La prigione aveva a disposizione 1.720 persone di cui 300 era personale d’ufficio e addetti ai interrogatori, il resto serviva per le mansioni generiche. Tra quelli moltissimi erano ragazzini tra 10 e 15 anni, strappati alle famiglie dei prigionieri stessi, e poi resi sadici da un addestramento particolare, pronti a torturare anche propri genitori e parenti. I prigionieri venivano istruiti su dieci ferree regole da seguire nei interrogatori-torture: venivano intimati di non tergiversare e inventare scuse, di rispondere subito, di non piangere sotto l’elettroshock o marcatura con ferro incandescente… per ogni disobbedienza, anche minima, venivano frustati con fruste elettriche… sono torture difficili anche solo da immaginareOvviamente, i prigionieri erano innocenti e le confessioni erano prodotte solo sotto tortura. Toul Sleng è stato inserito nel 2009 nell’Elenco delle Memorie del mondo da parte dell’UNESCO. Questa volta non faccio la visita, sono stata due volte in questo luogo così sconvolgente che preferisco rimanere fuori con qualcuno che non si sentiva di entrare. Mi travolge un malessere al solo pensiero di cosa è successo in questa ex-scuola.  Penso che è molto importante far capire alla gente che visita questo bellissimo paese anche la parte oscura della loro storia, quella che capitò ai cambogiani solo pochi decenni fa.  Noi rimasti fuori giriamo questo centralissimo e tranquillo quartiere, ci sembra impossibile che nel centro della città potesse esistere un luogo del genere. Vicino all’ingresso del museo, scorgiamo un piccolo dopo scuola, situato in un garage. I bambini e i loro due maestri ci accolgono con sorrisi e mani giunte a petto, P. dalla sua borsetta del tipo “Mary Poppins” estrae le matite colorate per regalarle ai bambini, e loro per ringraziare cantano. Aspettiamo che il resto del gruppo esce, e rientriamo in bus.  Regna un silenzio cupo e pesante … questo luogo fa stare veramente male.  La strada costeggia il Monumento dell’indipendenza, del 1958, anno in cui la Cambogia si staccò dalla Francia. In seguito attraversa i viali pieni della vita, e mentre in fretta cala calda notte tropicale,  guardiamo il cielo con le stelle che brillano per tutta la umanità … sembra che non mostrino pietà alcuna per questo mare di gente povera e malnutrita … Torniamo in nostro hotel dove ci aspetta un’ottima cena. Purtroppo, il personale del ristorante ha preparato due grandi tavoli su cui mancano due posti; G. e C. quindi fanno la “cenetta romantica” a lume di candela; vado a “disturbare”, tanto per scambiare due-tre parole anche con loro…

XX: il primo giorno al sito di Angkor:  la variante con volo da Phnom Penh a Siem Reap. Il volo è un po’ in ritardo, ci siamo già abituati. All’imbarco ci fanno un po’ di storie per il peso dei bagagli in stiva, soprattutto a me e a M. che siamo rimaste le ultime: superavano i 23 kg, previsti per i voli internazionali (per gli intercontinentali la franchigia è di 30kg, e non ce ne siamo ricordate). Alla fine riusciamo a sistemare tutto. Arrivando a Siem Reap dobbiamo fare i visti; i funzionari non sono particolarmente gentili;  nonostante il cambio euro/dollaro ufficiale, fanno pagare di più se paghiamo in euro. Così scopriamo subito uno dei problemi più grossi di questo bellissimo paese: la corruzione. Incontriamo la nostra guida, Saveth, (in altri tour ne avevo alcune altre,  Preksa e Kosal) che ci regala le “krama”, tipiche sciarpe cambogiane. La faccenda dei visti era lunga, sono le undici passate. I bagagli vanno al albergo con un pulmino, noi ci sbrighiamo a fare i pass per l’ingresso al sito, e finalmente entriamo nel parco archeologico. Nel corso del viaggio in Vietnam M. ha fatto un breve corso fotografico a S. che per questo viaggio si è attrezzato con una macchina nuova.  Sono pronte tutte le macchine fotografiche che non vedono l’ora di iniziare a lavorare, come se l’enorme lavoro già fatto nel Vietnam non fosse sufficiente. … R. invece farà dei filmati; A., la nostra storica fotografa quest’anno ha “abbandonato” la macchina, passando al più comodo cellulare, che le permette di inoltrare le foto in tempo reale. Così potrà condividere tutto con sua sorela che doveva partire con noi, ma ha dovuto  rinunciare al ultimo momento causa forza maggiore. Per fortuna abbiamo una buona assicurazione … La maggioranza dei templi più noti è concentrata in un’area di circa 15 x 6,5 kmqsituata al nord di Siem Reap, ma l’area definibile come Angkor è molto più vasta: il Parco Archeologico si estende su 400 kmq; “Greater Angkor Project” di Sidney ha evidenziato un’area urbana ancora maggiore di oltre 1000 kmq. Essa, intervallata da campi di riso ospitava centinaia di migliaia di abitanti in un’epoca in cui le più grandi città europee arrivavano a qualche decina di migliaia. Sono circa ottanta le costruzioni principali visitabili, erette in mattoni, laterite e arenaria, su un totale di oltre un migliaio: erano nascoste nella vegetazione fino agli anni ’50 del XIX sec, quando i francesi iniziarono a divulgare il mito della città perduta nella giungla che affascinò generazioni di europei. Sotto la dominazione francese venne intrapreso lo studio e il restauro della regione che faceva parte del Regno di Siam; fu restituita alla Cambogia nel 1907. La soprintendenza alla conservazione di Angkor venne assegnata all’EFEO, e già nel 1920 furono istituiti, grazie a G. Groslier il Museo Nazionale della Cambogia e il Parco archeologico di Angkor.  Il padre degli scavi e dei restauri fu Henri Marchal, che utilizzò per primo il metodo dell’anastilosi: seguirono G. Trouvè e M. Glaize, poi tutto venne interrotto per la II guerra mondiale. Proseguirono J. Laur e B. Ph. Groslier, ma la guerra civile dal 1972 fermò tutto e il sito venne minato dai khmer rossi. Dopo il ritiro dei vietnamiti del 1989, i lavori ripresero e il sito due anni dopo divenne un luogo tutelato dall’UNESCO, che si unisce all’EFEO, al team giapponese, al World Monuments Fund, al German Apsara Conservation Project e tanti altri organismi internazionali che si adoperarnono per salvare e proteggere questa meraviglia. Lo stato cambogiano nel 1995 istituì il progetto APSARA: l’acronimo del “Authority for the Protection of the Site of Ancient Region of Angkor” è identico al nome delle danzatrici celesti immortalate sui bassorilievi del parco archeologico. Chi furono i costruttori, cosa fecero, come scomparvero… ci sono tante teorie, racconterò solo qualche curiosità. I Khmer, secondo la leggenda, sono discendenti del mitico asceta indiano Kambu. Si tratta del principe persiano Cambise,  il figlio perduto di Ciro il grande che fuggì in preda alla follia verso l’est, trovando la pace in un paese bellissimo e ricco. In questo paese sposò la principessa Soma, sovrana dal popolo Naga, meta cobra, metà donna. Dopo il periodo Chenla, sovrani geniali e bellicosi che regnarono più a sud, nella zona di Kompong Thom, la capitale si spostò nella fertile piana di Angkor. La nuova dinastia  realizzò ad Angkor un’incredibile rete idraulica articolata in bacini, canali e risaie, che non solo assicurò il sostentamento a oltre un milione di sudditi, ma permise l’accumulo di un surplus volto a finanziare innumerevoli costruzioni. Nacque così una liquida scacchiera costellata di templi, palazzi in arenaria e legno, e capanne in bambù; brulicante di mercati, carri, piroghe, animali e gente. Perché scomparvero? Troppa ricchezza e declino morale, cambio climatico con scarsità di pioggia, lotte intestine, cambio di fede religiosa…non lo sappiamo ancora.

Potrei scrivere un trattato, ma lo spazio non lo consente. Siamo suddivisi in due pullmini e la nostra visita inizia con Angkor Thom, il cui nome significa semplicemente “la grande città”, chiamata dai contemporanei Yasodarapura. Fu fondata nel tardo dodicesimo secolo dal re Jayavarman VII, vincitore del popolo Cham. Una via rialzata attraversa il fossato in corrispondenza ad ogni torre d’ingresso, (c’e ne sono cinque ingressi in tutto), formando un ponte dove il serpente-naga è tenuto da 54 personaggi, da un lato deva, demoni buoni, dall’altro ashura, quelli malvagi.  Il canale che circonda la città è stupendo, con gli infiniti riflessi della vegetazione e dell’architettura… All’ingresso della città ci accolgono le torri alte 23 metri con i volti misteriosi. Rappresentano il re in persona, o il Bodhisattva Lokesvara, il Buddha misericordioso; o sono semplicemente guardiani della città? Forse una combinazione di tutti  tre Entriamo a piedi e finalmente appare il tempio di Bayon, il centro esatto della città, con le sue facce sorridenti e enigmatiche, l’unico tra i templi del sito ad essere costruito come un tempio buddhista Mahayana.  Saveth ci spiega questo passaggio dall’induismo al buddhismo, in cui si creò una società con la religione sincretica. Successivamente il tempio fu convertito in tempio indù, poi ridiventò buddhista, ma della corrente Theravada, e alla fine fu lasciato in balia della giungla, fino alla riscoperta novecentesca. Questo tempio non ha mura né fossati propri che lo circondano: infatti, sono quelli della Angkor Thom stessa. Pensato così, Angkor Thom è la città-tempio, con Bayon come tempio centrale: come tale copre un’area di nove kmq ed è molto più grande di Angkor Wat, che occupa soli due kmq di superficie. Dentro il tempio ci sono due gallerie al pianterreno ed un terrazzo più in alto con la propria galleria. La galleria esterna mostra una serie di scene in bassorilievo che riguardano le conquiste militari, ma anche quelle della vita quotidiana. È una fonte inesauribile per la conoscenza di usi e costumi khmer, molti immutati fino ai tempi nostri. I soggetti sono: l’armata Khmer seguita dai carri con le provvigioni; scene del tempio; la battaglia sul Tonle Sap tra gli Khmer e i Champa con l’esibizione navale e scene di palazzo, le navi Cham, la festa della vittoria e la parata militare, tutto intervallato con curiosissime scene domestiche che riguardano la cucina, l’allevamento, il commercio e le attività quotidiane di ogni tipo  … è rappresentato perfino un parto. In cortile si trovano due biblioteche, parte di ogni tempio khmer, che servivano per conservare libri e oggetti sacri. La galleria interna è rialzata e i suoi bassorilievi, aggiunti dal figlio di Jajavarman VII appartengono al mondo iconografico indù. Raffigurano le scene della mitologia, non decifrate in tutto: più chiari sono la costruzione del tempio di Vishnu e la burrificazione del Mare di Latte. La galleria interna è quasi completamente occupata dal terrazzo, dove ci troviamo circondati dalle torri a forma di viso, ciascuna con due, tre o quattro volti giganteschi, tutti con il sorriso indecifrabile. L’esatto numero delle torri non si conosce; si suppone che ne esistessero 49 di cui oggi ne restano solo 37, con circa 200 volti. Uscendo da Bayon, prendiamo i nostri coaster bus. Viaggiando, scorgiamo i  resti degli edifici che appartenevano al complesso del Palazzo reale.  Scendiamo. Ad ovest della strada si vede la punta della piramide del tempio di  Phimeanakas, la Terrazza degli Elefanti, la Terrazza del Re Lebbroso; invece ad est troviamo le torri del Prasat Suor Prat, che in khmer significa “le torri dei danzatori sulla corda”, un romantico nome derivante dalla credenza locale che suppone che venissero utilizzate per sostenere un filo per ospitare le acrobazie durante le feste reali. In realtà, il loro ruolo vero non è ancora stato scoperto. Secondo una leggenda, nel tempio di Phimeanakas viveva una principessa naga, che durante il giorno era serpente con nove teste, ma di sera diventava una bellissima donna che aspettava il re, suo sposo. Egli doveva salire molti scalini della ripida piramide per giacere con lei, altrimenti erano guai per il destino cambogiano. Concludiamo unanime che il re doveva avere un’energia sovrumana essendo la piramide alta oltre 40 m. Il Palazzo reale, costruito in legno non c’è più. E’ rimasta la Terrazza del re lebbroso, che deve il nome alla scoperta della statua del dio della morte Yama, coperta di licheni che ricordava una persona malata di lebbra; in più il sito probabilmente serviva come crematorio reale. Esiste anche un’altra leggenda che narra che Jayavarman VII era malato di lebbra, e che di tale malatia morì. La Terrazza degli Elefanti, lunga più di 300 metri, costituisce il lato ovest della Piazza Reale. Fu costruita da Jayavarman VII e dal suo figlio tra il XII e il XIII secolo. E’ adorna di numerose sculture di elefanti scolpite su un imponente basamento alto tre metri. Da essa si proiettano verso la piazza cinque scalinate, con le balaustre sormontate dagli uccelli garuda e dai leoni. Proseguendo, facciamo una breve sosta al tempio di East Mebon, che sorge sulla collina artificiale nel centro del Baray orientale, bacino d’acqua oggi prosciugato. La base del tempio misura 126 x 121 m, ed è sollevata quasi 5 m dal fondo del baray prosciugato, ai tempi un immenso lago artificiale. Ovviamente, allora il tempio con nove torri era raggiungibile solo con le barche: possiamo solo immaginare l’impatto. Per costruirlo vennero usati tutti i materiali caratteristici dell’architettura khmer: mattoni, laterite e arenaria. Sulle architravi, sugli stipiti e sulle porte stesse delle torri sono scolpite diverse divinità, con le fattezze dei genitori del re. Agli angoli dei recinti ci sono statue di elefanti alte due metri, invece la scalinata che porta alla torre centrale è abbellita da leoni guardiani. Segue la  breve sosta presso  un altro tempio-montagna dalle imperiose proporzioni, situato anch’esso vicino al Baray orientale, la più antica riserva d’acqua d’Angkor.  Si tratta del curioso tempio-monastero Preah Rup, “gemello” del tempio di East Mebon, il cui nome significa girare il corpo, confermando la credenza che il tempio servisse per le cerimonie di cremazioni: in esso il corpo del defunto veniva girato verso i punti cardinali, secondo vari riti funebri prescritti dai rituali hindù. Costruito in mattone, laterite e arenaria come tempio di stato del re Rajendravarman nel 961, fu dedicato a Shiva. Non abbiamo tempo di visitare tutto, un po’ per il ritardo del volo, un po’ perché diventa presto buio; quindi proseguiamo verso la location del set di Thomb Rider con Angeline Jolie nei panni di Lara Croft. E’ il tempio delle radici che divorano la pietra, il celebre Ta Prohm.  Quando nel ventesimo secolo cominciarono gli sforzi per la conservazione ed il restauro, Ta Prohm fu appositamente scelto dall’ EFEO per essere lasciato così, per “concessione al gusto del pittoresco”. Furono fatti sforzi per stabilizzare le rovine e permetterne l’accesso ai visitatori, affinché si mantenessero sia la condizione di apparente trascuratezza sia le condizioni di sicurezza. Ta Prohm fu uno dei primi templi iniziati da Jayavarman VII nel suo grandioso programma edilizio. Il nome odierno significa “il vecchio Brahma”, ma il nome originario, Rajavihara significava “tempio reale” poiché era dedicato alla famiglia del re: la struttura principale con Prajnaparamita onorava la sua madre, mentre i due templi secondari nella terza recinzione erano dedicati al suo maestro e al suo fratello. Il tempio è a pianta piatta, con tre recinti, ognuno con delle gallerie coperte. Gli alberi che crescono sopra le rovine sono la caratteristica che contraddistingue il sito: alcuni sono dei ficus strangolatori, mentre altri appartengono alle specie Terameles nudiflora. L’impatto è davvero singolare, con le radici enormi che abbracciano la pietra, con le sculture che emergono completamente incorniciate dalla corteccia dei alberi secolari, con le pietre enormi che stanno in piedi per puro miracolo, con le grida delle scimmie e il canto degli uccelli della foresta Sto sorvegliando a vista A., E. e P. che spesso rimangono ultimi per cercare di fotografare i monumenti senza un po’ esagerati turisti, soprattutto cinesi. qui tutti fanno gara per fare la foto più curiosa e più originale. Torniamo in albergo per rinfrescarci, poi concludiamo la giornata con la cena-spettacolo  di danza apsara presso il ristorante Cristal PalaceApsara è uno spirito femminile delle nubi, del cielo e dell’acqua nelle mitologie indù, da “ap” acqua e “sar” muoversi.  Durante il regime di Khmer Rossi furono eliminate tutte le arti e oltre 90% degli artisti, simboli di una società arcaica. Quando il nuovo Ministero della Cultura iniziò a cercarli, nessuno tra i pocchi sopravissuti osava rivelarsi. Dopo anni di terrore, fu difficile trovare i superstiti: durante il primo spettacolo post-regime, nel 1988 a Phnom Penh piansero tutti: gli artisti e il pubblico. Una risurrezione vera, perché si ripartiva dal nulla. A Pol Pot non sopravvissero né testi, né strumenti musicali, né coreografie, né costumi,  né maschere. Accompagnate da un solo tamburo e vestite semplicemente, la “apsaras” danzavano la memoria pura e intensa. Dopo, il maestro che allestì l’evento disse: “Per creare uno spettacolo non basta musica e movimento, è il cuore che conta”. La danza tradizionale è molto difficile: ci vogliono anni per imparare 1165 gesti che sono l’alfabeto base. Durante l’apprendimento i maestri piegano le bambine aspiranti modellando le loro mani e i loro corpi come se fossero di argilla. Il complesso dei musicisti, pinpeat, composto da indefinibili strumenti a percussione, carillons di piccoli gong, xilofoni, tamburi orizzontali samphor, è considerato il veicolo spirituale della danza. La melodia scorre lungo le scale musicali diverse creando effetti sconcertanti per gli occidentali: sembra acqua di sorgente, vento fra le fronde, cinguettio degli uccelli.  Auguste Rodin, in occasione dell’Apsara tournee francese del 1907 scrisse, ammaliato: “Ci hanno mostrato l’essenza dell’antichità classica.  E’ impossibile che la natura umana raggiungesse una tale perfezione.” Quando le danzatrici lasciarono la Francia aggiunse: “E’ come se ne fosse andata la bellezza del mondo”.  Stasera anche a noi è capitata una piccola porzione di questa bellezza. Per concludere in modo meno poetico, una buona parte di noi si reca al celeberrimo Mercato notturno di Siem Reap.  A. cerca regali per nipotini, S e M per le nuore;  e tutti quanti curiosiamo un po’ tra le spezie, magliette, calamite, pesciolini che fanno pedicure… Ritorno in hotel è rigorosamente in tuk-tuk, un mezzo di trasporto che si deve provare visitando la Cambogia.                                                                                                                                                                                      

XX: il secondo giorno ad Angkor. Alle otto, dopo la prima colazione ci siamo tutti. Trovo  G. e C. con il guardaroba rinnovato: hanno indossato le bellissime camicie bianche cambogiane !!! Ci spostiamo circa 30 km più a nord della città di Siem Reap, dove sorge una costruzione davvero speciale, un complesso che vanta le più raffinate e più pregiate decorazioni di tutta l’arte angkoriana: il Banteay Srei, la cittadella delle donne. Attraverso un gopura si percorre la via processionale; si arriva agli edifici disposti dentro la triplice cinta, con il tempio principale dedicato al Shiva.  Fu costruito in arenaria rosata in soli sette anni, dal 960 al 967 per il coltissimo e ricchissimo consigliere reale Jajnavaraha. Siamo immersi in una bellezza travolgente: frontoni, porte, colonnine intagliati con superba maestria: tanto è fine l’arte del intaglio che non sembra pietra. Un pizzo di pietra copre le pareti intere, riportando dei motivi vegetali, scolpendo animali reali e fantastici, narrando le vicende delle divinità e dei personaggi mitologici che farebbero gola alla fantasia dei più illustri scrittori di fiabe. Il grande respiro narrativo, il dinamismo della composizione plastica e l’espressività psicologica pongono i bassorilievi di Banteay Srei  al vertice della classifica mondiale dell’intaglio. Siamo nel cuore di una giungla immensa e misteriosa, i tetti dalle forme ccomplicate traffigono le nuvole, altari vuoti sacrificano qualcosa d’invisibile alle divinità oramai dimenticate, e i ventagli delle palme osservano tutto, impassibili e solenni…. Proseguiamo verso un altro capolavoro, uscendo da circuito “turistico”. Attraversiamo il villaggio Tbaeng. Siamo solo noi a visitare Il Banteay Samre, cittadella della gente di Samré, una tribù che viveva nella zona e il loro tempio situato subito ad est del Baray orientale. Sebbene non sia stata rinvenuta la stele con l’anno della fondazione, stilisticamente appartiene agli inizi del XII secolo, all’epoca di Suryavarman II. Ben conservato e con decorazioni dei frontoni stupende, regala un’atmosfera unica. È associato alla leggenda del re cetriolo. Un contadino che coltivava gustosi cetrioli presentò alcuni al re, che – per assicurarsi il possesso esclusivo – ordinò al contadino di uccidere chiunque cercasse di rubarli. Un giorno, rimasto senza, il re in persona si recò nel campo a prenderne alcuni. Dal momento che era buio, il contadino non lo riconobbe e lo uccise. Poiché il re non aveva figli, fu deciso che un elefante reale indicherà chi sarà il prossimo re. Furono convocati tutti i sudditi, ma l’animale si inginocchiò davanti al contadino che coltivava i cetrioli. La corte però non era contenta della scelta e iniziò a mancare il rispetto al re. Così il contadino con la sua tribù decise di trasferirsi dal palazzo reale al tempio di Banteay Samre, continuando a coltivare nelle vicinanze i suoi squisiti cetrioli. Dopo la visita della cittadella di Samre torniamo verso Angkor e ci fermiamo per il pranzo libero in un ristorante vicino ad Angkor Wat. Alcuni mangiano, altri fanno due passi, altri fanno ancora qualche compera essendo le bancarelle ovunque: io trovo un paio di pantaloni, un modello che “manca” nel mio guardaroba esotico. G. fotografa una bancarella alimentare molto curiosa, che vende i serpenti interi avvolti su se stessi, infilati su un spiedino e cotti alla brace. Non mi ispirano per niente … preferisco girare tra le bancarelle con i gioielli,  intrecciati con le erbe essicate dai colori diversi…

Dopo il pranzo ci aspetta Angkor Wat, il più celebre tempio del sito, posto sulla bandiera cambogiana. Nel 2015, anno record, il sito di Angkor Wat fu visitato da 5 milioni di persone, nel 2017 e 2018 i numeri superarono 2,5 milioni … Entriamo dalla parte ovest, attraversando un ponte galleggiante che sostituisce il ponte originale, oggi in restauro. Poi oltrepassiamo gopura occidentale, arrivando al cuore della meraviglia, la terrazza d’onore. Proseguiamo attraversando la balaustra incoronata con le naga che ci portano verso il tempio: alte palme svettano tra le magnifiche torri che si specchiano nei laghetti con alcune ninfee rosa, da una e l’altra parte sorgono le grandiose biblioteche, e infine entriamo per ammirare la galleria del Tempio del primo livello. La pianta di Angkor Wat è quasi quadrata: 1,5 km E-W per 1,3 km da N-S. In origine racchiudeva anche la città costruita in materiali deperibili, un fossato e una porzione di terra libera circondata da un muro perimetrale, con il compito di accogliere le piogge e stabilizzare la falda sottostante. In ogni punto cardinale ci sono dei elaborati ingressi – gopura; la più grande è quella a ovest con tre torri. Il tempio a pianta cinqconx si eleva sopra un terrazzamento rialzato, ed è composto da tre gallerie che si sviluppano gradualmente verso la torre centrale. Due gallerie interne hanno delle torri agli angoli, invece la esterna presenta dei padiglioni. La galleria più interna, detta bakan è un quadrato di 60 m di lato, il cui cortile conteneva l’acqua che rappresentava l’oceano primordiale che scorre intorno alla montagna sacra Meru. Antonio da Magdalena, un missionario portoghese già nel 1586 scriveva: “E’ una costruzione così straordinaria che è impossibile descriverla con una penna, poiché non c’è un edificio simile al mondo. Le torri e le decorazioni rappresentano quanto di più raffinato che il genio umano possa immaginare.”  Divenne conosciuto nel occidente solo alla metà del XIX secolo, grazie a note e disegni di Henri Mouhot, che scrisse: “…è un rivale per tempio di Salomone, ed è eretto da qualche antico Michelangelo… E’ più grandioso di qualsiasi cosa ci abbiano lasciato i greci e i romani, e contrasta tristemente con la situazione selvaggia in cui versa ora la nazione.” Non credette ne lui ne nessun’altro che i “arretrati” khmer avessero potuto costruirlo. Gli elementi architettonici sono originalissimi: le torri ogivali a forma di bocciolo di loto, semi-gallerie che ampliano i corridoi, terrazze cruciformi. La maggior parte della costruzione visibile è in arenaria; la laterite fu usata per le parti strutturali. Tanto è stato perso a causa dei saccheggi e del tempo: le parti in legno, gli stucchi dorati sulle torri, i colori delle sculture, e, ovviamente, le suppellettili in oro. I tipici elementi decorativi sono devata e apsaras che abbondano sulle pareti a partire dal secondo livello. I motivi floreali sono abbastanza statici e meno pregevoli dei periodi precedenti, invece i muri interni del primo livello sono adorni di ottimi bassorilievi con scene dai poemi Ramayana e Mahabharata, con una processione di re costruttore, Suryavarman II, e infine con i 32 inferni e i 37 paradisi della mitologia indù. Una delle scene più famose e la zangolatura del oceano del latte, con 92 ashura e 88 deva che tirano il serpente Vasuki. Proseguiamo verso il luogo più sacro del tempio, la cella: tre gruppi di ripidissimi scalini su ciascun lato conducono in alto, verso la torre centrale, alta 43 m ovvero 65 metri dal livello terra. Dal alto si gode una splendida vista sulle strutture sottostanti. Quando usciamo dalla gopura est, scendono dal cielo due-tre gocce di pioggia, sembra una benedizione. Ancora una nota sulle apsara, che mi incuriosiscono molto. Per molti anni gli studiosi spiegavano le figure di apsara come presenze accessorie e mitologiche, ma sembra che queste donne avessero un ruolo reale, molto più profondo ed importante. Non si sa quali valori spirituali e governativi rappresentano. Le figure femminili – devata e apsara – di Angkor Wat sono state sottoposte aglii avanzatissimi esami di riconoscimento biometrico che ha rivelato una sorpresa: unicità dei lineamenti, varietà di volti e delle posizioni del corpo e delle mani, appartenenza a varie etnie e diverse età, differenza dei gioielli, abiti e acconciature. Tenendo in conto l’irrepetibilità delle 65 caratteristiche oggetto dell’indagine, si calcola un totale di 120.000 differenze presenti su 1796 ritratti del tempio. Zhou Daguan, diplomatico cinese del XIII secolo scrisse dell’importanza di apsaras nella conduzione degli affari, sottolineando il gran numero di presenze femminili nel palazzo, ma non rispose al perché i khmer popolarono i templi con così numerosi e così precisi ritratti. Oltre ad Angkor Wat, i rilievi con le apsara si trovano in tutti i templi e in tutte le regge, sicuramente legate sia al sacro che al profano. Sono sacerdotesse o donne d’affari? Sante-ascete o cortigiane-prostitute? Raffinate danzatrici o semplici serve? Analfabete o letterate? Capire chi sono e che ruolo avevano è un rompicapo di tanti studiosi dell’arte khmer, e rimarra tale per molto tempo. Segue la  breve sosta presso  un altro tempio-montagna dalle imperiose proporzioni, situato anch’essp vicino al Baray orientale, la più antica riserva d’acqua d’Angkor. Concludiamo la giornata con Prasat Kravan, un piccolo tempio vishnuita della prima metà del X secolo, costituito da cinque torri allineate in mattoni rossi. Il suo nome significa tempio del cardamomo. Al interno troviamo interessanti bassorilievi, scolpiti direttamente in mattoni, una tecnica comune per i templi Cham, ma unica nei monumenti Khmer. Nella torre centrale  si trova la rappresentazione del mito di Vishnu e Bali. La leggenda narra che Vishnu, incarnandosi come nano nell’avatar Vamana, chiese al re dei demoni Bali di compiere tre passi per appropriarsi di ciò che riesce a calpestare. Bali accettò, e Vishnù si ritrasformo in un gigante riprendendo il mondo intero: l’aria, l’acqua e la terra con tre enormi balzi, arrabbiando tanto il demonio. Nella torre nord è scolpita Laksmi, affiancata da Shiva e Vishnu proponendosi come la dea che trascende il dualismo tra shivaiti e vishnuiti. Oggi a Prasat Kravan preparano un evento: tutto il tempio viene addobbato in pompa magna con lumini, mazzi di fiori di loto, e ovviamente tavoli e sedie rivestiti con candidi tessuti damascati. Quando saliamo in pulmino,  la  nostra guida ci propone un delizioso extra: sembra che abbiamo ancora un’mezzoretta prima del tramonto. Quindi ci rechiamo a visitare un tempio molto particolare, Neak Pean, costruito sul isolotto di un lago. Il nome significa “Il serpente intrecciato“, dovuto al Naga situato alla base del tempio. Secondo alcuni studiosi il complesso è stato costruito per ricordare il sacro lago Anayatapta, che si trovava sul monte Meru, la cui acqua aveva poteri curativi. I khmer ritenevano che anche l’acqua che circonda Neak Pean fosse curativa, e sulle sue  sponde  esponevano i malati, costruendo una specie di ospedale. E’ del XII secolo, voluto da Jayavarman VII, ed è stata progettato come un punto d’incontro dei quattro elementi, terra, aria, fuoco ed acqua. Costruire ospedali era un impegno tanto caro al grande sovrano, così che alcuni studiosi rittengono che può essere interprettato come conferma della sua mallatia e leggenda del re lebbroso. Per visitare questo tempio si attraversa un ponte in legno che si trova sopra un incantevole laghetto. Su di esso si esibiscono le orchestrine composte da persone mutilate, vittime delle mine antiuomo, che suoano strugenti melodie con strumenti tradizionali. Tra una e l’altra visita siamo sempre seguiti da qualche commerciante ambulante, spesso ragazzine che dicono che sono state in scuola durante la mattinata: qualcosa sempre finisce nei nostri zaini. Si fa buio, e dobbiamo rientrare  nel nostro hotel … i colori del tramonto sono indimenticabili.  Quando e quanto è possibile, cerchiamo sempre di includere qualcosa non previsto dal programma….

Prima di concludere, un paio di digressioni sulle religioni, senza le quali è difficile capire la complicata  architettura del sito. Buddhismo, originato dagli insegnamenti di principe, filosofo e asceta indiano Siddharta Gautama – Buddha storico, Sakyamuni (566 a.C – 486 a.C.) – comunemente si compendia nelle dottrine fondate sulle quattro nobili verità, ossia verità del dolore, verità dell’origine del dolore, verità della cessazione del dolore e verità della via che porta alla cessazione del dolore. Le differenze fra le due scuole – Theravada e Mahayana non sono relative tanto alle tecniche meditative, quanto ai fini da raggiungere. Nella scuola Hinayana o “del piccolo veicolo”, più propriamente detta Theravada, il fine è l’Arhat, l’essere che ha estirpato il desiderio, e di conseguenza il Nirvana rappresenta l’estinzione dei cicli di nascita e morte. Le tecniche meditative mirano alla padronanza della mente; il desiderio è negativo in se stesso, e la condizione di Buddha è un fatto esclusivo riservato al Buddha originario, Siddharta. La scuola Theravada è nata dal buddhismo dei Nikkaya nei primi secoli dopo la morte del Sakyamuni, ed è più conservatrice. E’ detta degli Anziani ed è diffusa soprattutto nel sud-est asiatico, in Cambogia, Laos, Thailandia, Birmania e Sri Lanka. La tradizione Mahayana si è sviluppata con l’accoglimento degli insegnamenti del Prajnaparamita sutra e del Sutra del Loto. Buona parte del Buddhismo indiano a partire dal II secolo è rappresentato o influenzato da questa corrente, e rappresenta quasi totalità delle correnti presenti nel Estremo Oriente (Madhyamaka, Cittamatra, Vajrayana, Buddhismo tantrico, buddhismo Zen). Buddhismo Mahayana o “del grande veicolo”, mira allo stato di Bodhisattva, il quale, armato di saggezza e compassione si attiva per la felicità altrui e decide di rinascere per condividere la gioia con gli altri esseri senzienti. Nel Mahayana la condizione di Buddha è insita in ognuno di noi; Shakyamuni è visto come manifestazione transitoria del Buddha/essenza. Il Nirvana non è annullamento del desiderio, ma è il viverlo in maniera saggia ed altruistica. E’ praticato in India, Cina, Giappone, Tibet, Mongolia, Vietnam ed in occidente. E’ una “spiegazione” dovuta: sia in Vietnam che in Cambogia abbiamo incontrato tante pagode (e anche tanta gente) appartenenti a questa religione e a queste due scuole buddhiste.

Seguono due-tre parole sul induismo, quasi scomparso dalla Cambogia, ma importantissimo in passato. Indusimo è una delle principali religioni del mondo, e come tale è considerata religione archetipo o Ur-religion. Preferisce autodefinirsi con la Sanatana Dharma, la norma eterna. Si può considerare una serie di correnti devozionali differenti tra loro secondo la interpretazione della tradizione, più che una religione unitaria. L’induismo trae la origine dalla religione vedica, decisamente politeistica e dai testi di RgVeda che quasi si contradicono nel loro politeismo: Dio è uno, ma i saggi lo chiamano con molti nomi. Le cerimonie importanti del ciclo della vita, come il matrimonio e i funerali, hanno nell’induismo la stessa struttura vedica, nonostante che oggi il vedismo si ritenga estinto.  Nel VI secolo a.C. nei circoli brahmanici furono adottate tradizioni teistiche concentrate su due divinità (deva): Vishnu e Śhiva, che diventarono le divinità assolute dalle rispettive tradizioni, invece l’emanazione del cosmo spetta a Brahmā. Le Scritture sacre si dividono in due macro insiemi: Shruti, la rivelazione divina e Smrti, i testi compilati dagli uomini. Tra questi testi sono più celebri il Ramayana e il Mahabharata, le due grandi epopee sacre, poi  i Purana con i miti, simboli, aspetti iconografici, celebrazioni e riti; i Brahma-sutra, i trattati normativi e dottrinali, Shastra; i Tantra e gli Agama dedicati alle dottrine delle diverse tradizioni. La società indù è divisa in kaste: brāhmana, con funzioni sacerdotali e religiose, vestiti di bianco; gli ksatriya con funzioni guerriere o politico-amministrative;  i vaiśya con le attività agricole e commerciali;  e  gli ultimi, gli śūdra, a cui sono riservati lavori servili; spesso si trattava di prigionieri di guerra e gli aborigeni resi schiavi dai conquistatori indoariani. Le divinità si venerano sotto le varie forme, con un pantheon infinito di dei, semidei e altri esseri sacri. Nella sua forma moderna induismo si basa su tre grandi tradizioni, shivaismo, vishnuismo e shaktismo, con Shiva, Vishnu e Shakti (o Devi) considerati come la divinità supreme. L’induismo è diffuso soprattutto in India, dove lo pratica la quasi totalità della popolazione.

Per congedarsi da Angkor un pensiero che credo possa essere condiviso da  tutte le persone con cui ho viaggiato in Cambogia. Esistono pochi luoghi sulla superficie terrestre che possono vantare una bellezza così struggente: un cielo immenso solcato dalle nubi eteree; le torri a boccioli di loto specchiate nell’acqua; la stirpe arborea che divora la pietra, annientando ciò che fu un spazio umano e creandone uno nuovo, irrazionale, appartenente al sogno.  Qui l’arenaria viene lavorata in modo che sembra un tessuto o una pasta malleabile, dorata dal sole; immense risaie e slanciati palmeti tracciano le orizzontali e verticali di una geometria naturale e semplice.  Poi ci sono sorrisi della gente, ci sono bimbi, donne e uomini che giocano, vendono o pregano, simili a quell  immortalati nei ritratti che adornano le architravi e i frontoni dei templi. Angkor è essenza stessa di un fascino surreale e ineffabile, è un insieme magico, un mondo se stante, che bisogna vedere per credere che esista. Nel mio animo pensarlo provoca un sentimento di nostalgia, mi capita di sognarlo, e quindi mi viene il desiderio di tornare.  Si è formata nel mio cuore un’immagine fatta non solo di pietre e intagli, di acqua, cielo e alberi ma anche dei volti della gente di cui avi, con tanta devozione e con tanto senso estetico crearono non solo la città santa più vasta del mondo, ma anche senza dubbio alcuno, una tra le più belle e più particolari città mai esistite, un luogo a cui assegnarono un nome semplicissimo : LA CITTA’.

XX Il fiume-lago Tonle Sap. A circa 10 chilometri da Siem Reap inizia il lago Tonle Sap, “grande fiume d’acqua dolce”. Ci sono diversi villaggi attorno al lago, tra essi Chong Keats, molto turistico; il piccolo  Banteay Mechrey, poi Kompong Phluk, con belle foreste di mangrovie, spesso completamente allagate nella stagione umida. Essenziale per la sussistenza degli abitanti delle sue rive, il suo ecosistema unico è stato dichiarato dall’UNESCO ambiente ecologico di primo livello e Riserva della Biosfera. Le dimensioni del lago Tonle Sap variano molto: verso la fine della stagione secca il lago misura solo da 2000 a 2500 chilometri quadrati, durante la stagione piovosa arriva addirittura a 12.000 kmq,  aumentando  la superfice per 6 volte. Cambia anche il regime, il “lago” inizia a scorrere verso l’interno, e la profondità aumenta da 3m della stagione secca a otre 15 metri di quella umida. Le comunità che vivono grazie alla pesca abitano in due tipi di villaggi, i villaggi galleggianti, costruiti su zattere di bambù legate fra loro e ancorate, e i villaggi  fissi costruiti sulle alte palafitte alle sponde del lago in secca, che durante la stagione piovosa iniziano a galleggiare. Gli abitanti sono prevalentemente di etnia khmer, però ci sono anche molti vietnamiti e per questi ultimi la vita è più difficile. Loro sono costretti a vivere sull’acqua perché per legge non possono  possedere la terra cambogiana. In passato abbiamo visitato una scuola vietnamita, con l’anessa chiesa (erano cattolici). Il loro villaggio – completamente galleggiante – comprendeva tutto, perfino un allevamento dei serpenti e degli alligatori, utilizzati – ahime – per la produzione di scarpe e borsette. Invece questa volta visitiamo Kompong Khleang, un villaggio fisso, protetto per la sua singolare architettura e ancora autentico. E’ il più grande e il meno turistico della zona, forse perché dista 50 chilometri da Siem Reap. al termine del tratto asfaltato, una strada in terra battuta si inoltra nel villaggio. Per accedere, bisogna comprare dei biglietti che aiutano gli abitanti a proteggere il loro habitat. Ai due lati della strada sorgono le case sulle palafitte. Vicino a ogni casa per terra sono distese le lenzuola con migliaia di piccoli pesci che in questo modo vengono essicati e conservati per la stagione umida. Nel porticciolo sul fiume ci imbarchiamo su una navicella, tutta per noi. Facciamo una piacevole gita attraversando i canali e costeggiando varie isole e isolette. Durante la navigazione placida osserviamo la pesca, il lavaggio dei panni, i bimbi che si tuffano nell’acqua, i momenti di relax nelle amache, lavori di agricoltura su terre emerse, i ragazzi che tornano da scuola in barca …  così, tra mile foto  aggiungiamo un villaggio complettamente galleggiante su zattere, vicino al lago vero e proprio, così vasto che sembra mare. E’ davvero immenso, non vediamo l’altra sponda. Il ritorno lo facciamo più veloci, in soli dieci minuti: Una decina di minuti di navigazione sulle calme acque  e si torna indietro. E’ ora di visitiare il villaggio: ci sono bambini in divisa che giocano e guidano le bici, c’è una pagoda tutta aghindata con le bandierine, ci sono famiglie che ci invitano ad entrare nel pianoterra delle loro case, sotto le palaffitte. Esse, oltre a protteggere dall’inondazioni, servono per fare ombra, e sono così alte che sembrano trampoli. In questo periodo il livello dell’acqua è medio, la stagione delle piogge è finita da solo un mese e tutto cio che vediamo è molto pittoresco. È difficile immaginare che vengano allagate durante le piene del lago-fiume: fa impressione e provoca paura. Purtroppo, dobbiamo rientrare per cercare di fare un salto alla scuola d’arte Artisans Angkor di Siem Reap. C’è tanto traffico, quindi abbiamo solo una mezz’ora per visitare gli interessantissimi laboratori e un’ampia boutique, che espone davvero l’eccellenza dell’artigianato cambogiano. Certamente, i prezzi sono molto più alti rispetto alle bancarelle, ma lo è anche la qualità: gli artigiani di Artisans Angkor colaboravano (e colaborano tutt’ora) nella difficile ricostruzione dell’immenso parco archeologioco.  Quindi anche qui si fa qualche compera: M e S trovano delle deliziose borsette per le proprie nuore, C compra una piccola statuetta, io un quadretto in lacca… certamente, non ricordo tutti gli acquisti… Dobbiamo rientrare in hotel per caricare le valigie e per cambiarsi, è giunta ora di andare all’aeroporto. Quando arriviamo, ci aspetta la notizia – ormai abituale – che il volo è in ritardo. Giriamo tra i negozietti, facciamo qualche acquisto anche qui. Ci consoliamo all’idea che quando prenderemo la coincidenza a Singapore, aspeteremo meno. Ci spiegano che il ritardo capita a motivo dei numerosi bagagli che devono caricare. Alla fine, con tutte queste ore di volo che abbiamo fatto, abbiamo imparato che è importante volare bene e  arrivare a destinazione.

 

XX la campagna cambogiana.  E’ il percorso che si fa sempre, o andando da Siem Reap verso Phnom Penh o  viceversa. Carichiamo le nostre valigie sul pullman e partiamo verso Phnom Penh. Abbiamo nuova guida, Kin, che conosco giàHo communicato  anche a lui quali sono i nostri interessi, che vanno sempre oltre le visite previste. Kin è molto disponibile e gentile, ci racconta del suo paese, della sua piccola figlia e del suo matrimonio combinato, ancora tanto in uso in Cambogia. Percorriamo i primi 80 km, la maggior parte su strada statale in buone condizioni, e poi prendiamo una deviazione per Beng Mealea, il cui nome significa lago del loto. E’ un tempio dedicato a Vishnu, ma nella statuaria sono presenti anche alcuni motivi buddhisti. Dallo stile si suppone che e stato eretto da Suryavarman II, costruttore di Angkor Wat, nonostante non sono state trovate le testimonianze scritte.  Il complesso è composto di una base con tre gallerie concentriche, unite dai chiostri cruciformi, come ad Angkor Wat, ma a differenza di quello, è disposto su un solo livello. Le decorazioni sono di ottima fattura, nonostante il complesso, non essendo mai restaurato, è in pessimo stato di conservazione, che garantisce qualche emozione in più durante la visita. Oltrepassando il ponte con il Naga, ci troviamo nel sito.  Ci incamminiamo sui ponticelli di legno sospesi sopra le rovine ammirando la stupenda lavorazione della pietra che s’abbraccia stretta stretta con rami, radici e fogliame; quindi scendiamo nelle gallerie completamente buie,  e infine ci arrampichiamo per salire al  “belvedere”. Un tempio bellissimo… Saliti in pullman, facciamo la prima sosta presso un chiosco che vende il riso cotto in bambù, chiamato kalan, molto buono. Segue una sosta al ponte di Spean Praptos, costruito in arenaria da Jayavarman VII. Si trova sull’antica strada reale, nelle immediate vicinanze della cittadina di Kampong Kdei. Presenta la classica struttura khmer a “falso arco” con 21 campate ed è lungo 87 metri, largo 17 ed alto 14. L’estremità e coronata dai guardiani nāga a nove teste. Tuta la strada è affiancata da un ingegnoso sistema di irrigazione, anch’esso prodotto dalle straordainarie capacità ingegnerstiche del popolo khmer. In seguito ci fermiamo per assistere  alla antica modalità della soffiatura del riso, fatta con  un macchinario in legno che si aziona con i piedi. Ci lavora l’intera famiglia che ci permette di vedere anche le loro case sulle palafitte, veramente povere … scambiamo sorrisi, non abbiamo più le matite e caramelle… ci viene l’idea geniale di aprire le valigie e regalare qualche maglietta…. Quando arriviamo al Kompong Thom ci fermiamo al ristorante Sambor village, situato sulla riva di fiume Stung Sen. Qualche minuto dopo l’arrivo salta la corrente, e il caldo si fa sentire subito. I proprietari fanno partire i generatori e Kin ci spiega che  l’energia elettrica rappresenta un grande problema per la Cambogia.  Anche il ristorante è costruito sulle palafitte, ha una bella piscina e un giardino paradisiaco.  Dopo il pranzo ci fermiamo presso un laboratorio di marmo, stracolmo di statuette del Buddha di tutte le dimensioni e in tutte le posizioni.  La zona di Kompong Thom cela numerosi siti archeologici molto interessanti: ospitava anche la capitale del antico regno di Chenla che prosperò tra il VI e il IX secolo. Certamente, non possiamo visitare tutti i siti che meritano in una giornata, ci vorebbero diverse settimane … Ogni nostro itinerario propone qualchosa di diverso. A volte visitiamo questa capitele: Sambor Prei Kukun  sito pre-angkoriano, abitato probabilmente già in età neolitica. A partire dal VI/VII secolo d.C.  i due fratelli Bhavarman e Mahendravarman costruirono una città chiamata Iśanapura, una delle capitali del regno di Chenla.  La città comprendeva più di 100 templi in mattone disseminati nella giungla, tra cui alcuni attualmente visitabili. Tra le scoperte più importanti, la più antica iscrizione in lingua khmer. Dopo la trasferta della capitale ad Angkor, Isanapura subì un certo declino, ma rimase comunque un centro importante anche in epoca angkoriana. Come molte altre città cambogiane, venne abbandonata nel XV secolo, per venire riscoperta dagli studiosi occidentali agli inizi del Novecento.  Alla visita di questo sito si puo aggiungere una veloce di sosta presso qualcuno dei numerosi templi della zona: il Prasat Kuhek Nokor, costruito nel X/XI secolo in laterite e arenaria, adorno di fiori di loto, oppure solitaria Kok Rocha, una torre risalente all’XI secolo ed oggi pendente; oppure il più vasto Phnom Santuk, uno dai luoghi più sacri della Cambogia, con una pagoda e un Buddha sdraiato recente, accanto ai Buddha più antichi, immersi in un panorama magnifico e molti addobbi davvero kitsch.  Noi ci dirigiamo verso Phum Prasat, che troviamo dopo 30 km della Route n°6. Attraversiamo un villaggio dove un sciame di bambini si mette subito ad accompagnarci verso il nuovo Phum Prasat, una recente costruzione. Ci fermiamo con dei bambini: cantano, contano, ridono… Invece il tempio antico è di forma piramidale, ed è splendidamente decorato. Fu eretto nel periodo Chenla, cioè nel VII/VIII secolo e come tale il più antico che abbiamo visto. M. ha perfino incontrato – per fortuna solo da lontano – un cobra vero che faceva il guardiano del tempietto antico. Non bisogna dimenticare mai che siamo nei tropici e che non bisogna adentrarsi fuori dei sentieri battuti… io invece mi sono fermata con una bambina, a cui ho dato l’ultima penna che avevo. Cercava di spiegarmi qualcosa, non ci capivamo, ma alla fine si è messa a ballare una danza apsara: abitino rosso a pois bianche, dita piegate all’indietro come steli di fiori al vento, scure gambe mosse da una musica che solo lei sentiva. Mi comuove tuttora pensarla … E’ meravigliosa, chiedo di ripetere la danza perche voglio filmarla, ma lei mi ripete “hot” che interpreto all’inglese, caldo. Arrivata in pullman, chiedo Kin cosa significa hot che  risponde che significa “stanca”. Proseguiamo. La tappa seguente è Skoun. Ci fermiamo per sfruttare i bagni, ma molto più interessante è il mercato dove vediamo grosse tarantole, vive e fritte, allevate in buchi nel terreno dei villaggi circostanti. Il ragno fritto è la specialità del luogo, forse sorta durante il regime dei Khmer Rossi, a causa della scarsità di cibo, forse esisteva anche prima …Proseguiamo per Phnom Penh, di cui ho parlato all’inizio. Il crepuscolo cambogiano è come sempre magnifico. Kin ci racconta della sua città, la capitale della Cambogia, cresciuta troppo in fretta e senza nessun piano regolatore. Per entrare nella città bisogna attraversare vastissimi, popolosissimi e poverissimi sobborghi. Qui in Cambogia la povertà e molto evidente: vedendo tutte queste persone malnutrite e malvestite quasi ci vergognamo della bellezza del albergo in cui stiamo per entrare.

 

XX. quando si ha qualche giorno in più. Durante questi anni in cui ho accompagnato i viaggi in Cambogia, ho avuto i viaggiatori che si fermarono qualche giorno in più in questo bellissimo paese.

Le mete che si possono raggiungere facilmente da Phnom Penh sono molte, con un gruppo abbiamo creato un itinerario che comprendeva tutte (o quasi)  antiche capitali della Cambogia. Oltre Sombor Prei Kuk e Angkor, ci sono due luoghi dalla grande importanza storica postangkoriana. Il 1431 rappresenta per la Cambogia una triste data, la ricchissima Angkor venne saccheggiata dal re siamese Boromoraja II, dando inizio ufficiale ad un periodo di decadenza. In realtà il declino era già in corso, con  i siamesi che premevano dall’ovest e i regni Dai-Viet che premevano sui confini sudorientali.

La prima capitale postangkoriana fu Longvek, conquistata nel 1594 dai thailandesi. Di Longvek oggi non resta praticamente più nulla. Fu il re Ang Chan a scegliere il sito della nuova città  iniziando i lavori nel 1553. Come nome venne scelto Longvek che significa incrocio, per sottolineare l’importanza commerciale della sua posizione geografica, confermata dalle recenti scoperte archeologiche. Gli scavi hann  restituito l’immagine di una città murata dalla forma rettangolare, circondata da una fitta foresta di bambù e dai numerosi laghi, al cui interno si potevano trovare porcellane cinesi e giapponesi, manifatture per la lavorazione del bronzo e dell’argento, negozie e palazzi nobiliari

La poco distante Oudong è stata sede dei sovrani cambogiani dal 1618 al 1866, quando la capitale della Cambogia venne spostata a Phnom Penh. La fondazione di Oudong coincise con un periodo di predominio dei vietnamiti, poiché il fondatore Chey Chettha II, contrasse matrimonio con una principessa vietnamita diventando vassallo della dinastia Le. Il luogo più interessante di Oudong è la collina Phnom Oudong,  dove 509 gradini conducono alla sua sommità, con un tempio moderno che ospita una reliquia del Buddha.

Nonostante la più conosciuta ai turisti sia l’area attorno Siem Reap, è il sud del paese che rappresenta la culla della civiltà cambogiana. Da ricordare un’altra capitale, la più antica capitale preangkoriana: Angkor Borei,  una piccola cittadina nella provincia di Takeo. Non c’è molto da vedere, nonostante sia stata abitata da circa 3000 anni, e nonostante che antica Vyadhapura  era una grandiosa città cintata dalle mura. Fu l’ ultima capitale del regno di Funan, durato dal I al VI secolo. a cui segue Sombor Prei Kuk, di cui ho scritto prima.

Aggiungendo almeno un’altra giornata da Siem Reap si possono visitare due siti assoluttamente unici. Il Parco Nazionale di Phnom Kulen, a un ora e mezzo da Siem Reap con monumenti della civiltà khmer in uno splendido ambiente naturale. Si visita per vedere le cascate che scorrono da una montagna sacra formando lepiscine naturali, le incisioni falliche a Kbal Spean (il fiume dei mille linga) e un famoso santuario buddista.  Prasat Preah Vihear, un maestoso tempio unico per la sua posizione sulla cima dei monti Dangkrek, nel pasato territorio conteso  tra Cambogia e Thailandia.  Considerato progenitore della tipologia del tempio-montagna, affonda le sue fondamenta in pietra fino al bordo della falesia, che precipita nelle pianure sottostanti, offrendo un panorama mozzafiato della Cambogia settentrionale collinare. La costruzione del complesso, durata tre secoli, attesta l’evoluzione dell’arte scultorea nel periodo di Angkor,

Un altro giorno per gli amanti della Cambogia coloniale, distesa lungo il fiume Sangker, Battambang è una delle cittadine coloniali meglio conservate del paese. Nelle vecchie botteghe francesi c’è un po’ di tutto, dal caffè del commercio equo e solidale alle gallerie d’arte. Nelle campagne dei dintorni, sorgono alcuni templi antichi che, sebbene non siano straordinari come l’Angkor Wat, sono meno affollati e meritano una visita.

Ovviamente, c’e tanto altro ancora  da vedere, sappiamo bene che la Cambogia non è solo Angkor, come la Giordania non è solo Petra ne Perù solo Machu Pichu… ma fermiamoci qui.

XX  Tutti i voli portano a Milano… Siamo a Malpensa. I bagagli sono arrivati tutti, il pullmino aspetta per portarci a casa … arrivederci alla prossima avventura.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il nuovo ponte sul fiume Mekong,
Palazzo reale, Phnom Penh
Museo Nazionale di Phnom Penh: Statue di Vishnu, Rama e Brahma
Ponte di Spean Praptos, Kampong Kdei
Sambor Prei Kuk, un sito preangkoriano
La magia di Beng Mealea
Banteay Srei, magnifici bassorilievi
Uno dei nostri gruppi a Banteay Srei
Banteay Samre
Angkor Wat all’alba
Angkor Wat, la scalinata che porta al Santuario
Angkor Wat, le apsara
Ingresso ad Angkor Thom
Bayon, enigmatici volti di Buddha
Bayon, bassorilevo con scena di parto
Ta Prohm, il tempio delle radici
Ta Prohm, un apsara emerge dalla corteccia
Prasat Kravan
Prasat Kravan : Lakshmi
East Mebon
Neak Pen
Giovani monaci nel sito
Bambini vanno a scuolain barca, villaggio di Kompong Khleang, lago di Tonle Sap

DIARIO  DI  UN  VIAGGIO  in VIETNAM

 

xx xx, lunedì. Ora di ritrovo a Malpensa: sono le dieci di mattino, siamo  in ventitre, me compresa, tutti puntuali. Voliamo con Singapore Airlines. Il servizio è ottimo, abbiamo i posti vicini uno all’altra, ma come sempre, nessuno riesce a dormire un granché durante il volo.

xx xx, martedì. Atterriamo all’aeroporto di Singapore in perfetto orario. Sono le 7.35, albeggia: ammiriamo le vetrine dei negozi e le magnifiche orchidee del terminal aspettando di prendere la coincidenza per Hanoi. Alle 11,40 ora locale siamo atterrati nel nord del Vietnam e nonostante la stanchezza non vediamo l’ora di iniziare a visitare la capitale Hanoi. Il disbrigo delle prattiche doganali è veloce, non bisogna fare visti e le valigie sono arrivate tutte. Subito cambiamo un po’ di euro, tanto per avere qualche dong vietnamita in tasca. Ci aspetta il pullman con Minh, un giovane molto simpatico, che subito inizia a darci qualche notizia del suo paese e della sua città natale, nonostante ora viva a Ho Chi Minh City. Hanoi, situata sulla riva destra del Fiume Rosso, venne conquistata dai Francesi, che la resero capitale dell’Indocina, poi viene presa dai Giapponesi, prima di diventare la capitale di una repubblica autonoma filosovietica, Vietnam. Iniziamo con la visita del Tempio taoista Quan Than o Tran Vu, vicino al lago dell’Ovest, il più grande della capitale. Siamo subito assediati dalle venditrici, e oltre ad ammirare bel edificio fotografiamo i venditori ambulanti che offrono dei fiori dai loro cicli, per la festa degli insegnanti. Alcune signore non resistono alla tentazioni, e le prime cartoline finemente intagliate entrano nelle nostre borse. Taoismo designa le dottrine a carattere filosofico e mistico, esposte principalmente nelle opere attribuite a Lao Tzu e Zhuāngzǐ, composte tra il IV e III secolo a.C., di cui la più conosciuta è Tao Te Ching. La religione è basata sul Dao (in cinese la via), il principio indifferenziato che dà origine al cosmo; non possiede un credo e pratica unitari; è cosmica, centrata sul posto e la funzione dell’uomo, di tutte le creature e dei diversi fenomeni naturali. Nel tempo se ne sono sviluppate diverse scuole e interpretazioni. La costruzione del tempio iniziò all’epoca dall’imperatore Lý Thái Tổ (1010–1028) e in esso fu venerato il genio della pioggia Tran Vu, un santo importantissimo per la civiltà agricola come nei tempi remoti fu il Vietnam. Una leggenda narra che il genio fu inviato dal cielo per uccidere la malvagia e immortale volpe bianca delle nove code che viveva in lago dell’Ovest, mangiando la gente. Il santo l’ammazzò e la tagliò a pezzi, la pelle fu gettata nel lago insieme con le interiora che sopravvissero diventando un serpente cattivo e una tartaruga malefica. I due animali furono uccisi una seconda volta con la spada magica, tuttora venerata, insieme con il santo protettore della spada, Quan Than. Il tempio quindi rappresenta un mix prezioso di fatti storici e leggendari, una preziosa testimonianza che unisce architettura, arte e religione. Proseguiamo a piedi verso la grande piazza dove sorgono il Parlamento e il Mausoleo di Ho Chi Minh. fondatore del Vietnam moderno e padre della patria. Zio Ho avrebbe voluto essere sepolto in modo molto più sobrio, invece il suo corpo mummificato si trova in una teca dentro questo grande e austero edificio, sorvegliato a vista giorno e notte. Visto che tempi ci permettono, Minh e io consigliamo al gruppo un extra, e così visitiamo anche i giardini con uno stupendo lago e la sobria casa dove viveva e lavorava l’eroe nazionale Ho, tutti ben curati e storicamente interessanti. Segue la piccola e curiosa Pagoda del pilastro unico. Questo edificio buddhista, simile a un fiore di loto è costituito da una colonna di pietra di 1,25 metri di diametro su cui poggia l’intera struttura, alta soli 4 m, larga e lunga 2 m. Nelle vicinanze si trova anche un piccolo e interessante museo. Riprendiamo il pullman e andiamo verso il Tempio della letteratura, Văn Miếu, costruito in onore di Confucio nell’anno 1070 dall’imperatore Ly Thanh Tong.Di fronte a questo bel complesso con meravigliosi giardini c’è un altro edificio, addobbato per la festa degli insegnanti, molto onorati nella cultura cinese e vietnamita. Il tempio è uno dei pochi luoghi in Vietnam dedicati a Confucio: in più, fu la sede della prima Università, detta Accademia Imperiale, aperta principalmente ai nobili, ma anche ai studenti eccellenti delle classi inferiori. Si insegnavano composizione letteraria, classici confuciani e altre materie necessarie per diventare mandarino, ovvero impiegato imperiale, e solo in pochi riuscivano a superare gli esami difficilissimi – in tutto 2313 persone nel periodo dal 1442-1779, i cui nomi sono riportati sulle lastre di pietra. Il Confucianesimo è una tradizione filosofico-religiosa, nata in Cina diffusasi in seguito in Giappone, Corea e Vietnam. Confucio elaborò un sistema rituale ed una dottrina morale e sociale, che si proponevano di rimediare alla decadenza della Cina, in un’epoca di profonda corruzione e di gravi sconvolgimenti politici. In realtà, una pratica simile esisteva già prima di Confucio, ma egli rappresenta l’esponente maggiore, quindi degno di venerazione. Proprio l’importanza che gli era attribuita nei testi classici cinesi portò i primi europei a pensare che Confucio ne fosse il fondatore. Dando forte enfasi ai legami familiari e all’armonia tra varie entità sociali, predicava la rettitudine del mondo reale, piuttosto che una soteriologia che proietti le speranze in un futuro trascendente, il Confucianesimo è definito una dottrina umanistica, una religione-non religione che “sacralizza il secolare”. Prima di proseguire a vedere lo spettacolo delle Marionette sull’Acqua, facciamo un salto al nostro hotel Sunway, per rinfrescarci un po’. Per arrivare a teatro prendiamo la strada che gira attorno al lago di Hoàn Kiếm (ovvero lago della Spada Restituita): la leggenda narra che una grande tartaruga uscì dalle sue acque per offrire una spada magica all’imperatore Le Loi, per aiutarlo a respingere i Cinesi dal paese. Scorgiamo romantica isoletta su cui sorge Tran Quoc, la più antica pagoda della città, risalente al VI secolo, poi c’e quella con il tempio confuciano Ngoc Son, del prima metà del XIII secolo, meravigliosamente decorato. Finalmente entriamoal Lotus Water Puppet Theater per vedere celeberrime marionette sull’acqua. I contenuti della performance spiegati in inglese sono legati alla vita quotidiana dei contadini che coltivano riso, pescano e allevano buffali e alle leggende storiche tra cui non può mancare il re Le Loi e la sua preziosa spada … La più antica testimonianza sui pupi vietnamiti si trova su una stele del XII secolo. Ma la gioventù locale sembra disinteressata a questa forma d’arte, patrimonio immateriale UNESCO, relegata sopratutto al circuito turistico. Gli stranieri rimangono incantati, tanto che un regista canadese ha allestito l’Usignolo di Stravinskij utilizzando cantanti-burattinai al posto dell’orchestra. Si tratta di un’antica e singolare arte tradizionale, che nei tempi rappresentava l’unico divertimento dei contadini stanchi delle fatiche quotidiane. Dopo lo spettacolo andiamo a cena nel ristorante Tonkin dove mangiamo molto bene, nonostante le pietanze appartengono alla per noi sconosciuta cucina vietnamita. Per fortuna, c’è anche il pane, dovuto all’influenza e dominio francese. Torniamo all’albergo attraversando le strade affolate dalla gente che mangia accovacciata nei ristorantini immprovvisati, nonostante sia tardi. Il primo giorno a Hanoi è stato davvero lunghissimo e pieno di emozioni. Finalmente si va a nanna…

xx xx, mercoledì. Dopo l’ottima colazione, saliamo in pullman. Iniziamo a percorrere una parte del Vietnam che appare ancora oggi così come fu una volta: un paesaggio rurale, costellato da risaie con le tombe degli antenati che si trovano vicino alle case, piccole cittadine , innumerevoli corsi d’acqua e villaggi, più o meno grandi. Chiedo Minh di farci qualche sorpresa per la soste obbligatorie durante il nostro viagggio. Ci capiamo al volo. Al posto di fare sosta presso qualche anonimo autogrill, Minh ferma il pullman nel villaggio Dong Trieu, dove si trovano diverse fabbriche  che producono ceramiche ancora in maniera artigianale. Si tratta di un luogo poco turistico, non è un autogril attrezzato con i souvenir, nonostante anche loro hannoqualche prodotto che piace ai turisti. Producono tanti oggetti per il consumo locale, come grandi giare per i fiori, vasellame di cucina etc… Un’impiegata ci porta a vedere diverse fasi della produzione: per prima giriamo tra le montagne di argilla di diversi colori, che sono qui per essere selezionate e trattate in vari modi.  Ci racconta che in seguito la massa viene introdotta nelle forme di gesso, oppure va lavorata a mano, sul torchio del vasaio. Dopo la essicazione i prodotti vengono dipinti o smaltati, e infine cotti in enormi forni tradizionali ancora alimentati con la legna  …Siamo contentissimi, ci piace viaggiare così, e la semplice sosta tecnica  è diventata una bellissima e originale visita di un’arte che sta per scomparire.

Entrando nella provincia di Quang Ninh cominciamo a scorgere le sagome frastagliate delle montagne calcaree: vuol dire che siamo vicini alla nostra meta, l’ottava meraviglia del mondo, la Baia di Halong. La città è in continua crescita, nuovi quartieri, alberghi, centri commerciali e il modernissimo imbarcadero con le immancabili navi da crociera verso cui ci dirigiamo … La Baia di Halong, patrimonio UNESCO è un’insenatura situata nel golfo del Tonchino, che comprende otre 2000 faraglioni e isolette, coperti da fitta vegetazione sempreverde con numerose grotte carsiche. Siamo a 164 km ad est della capitale Hanoi, non lontani dal confine con la Cina. Il termine Hạ Long significa il drago scende in mare, e deve il suo nome a una leggenda. Molti anni fa i vietnamiti stavano combattendo gli invasori cinesi e per aiutargli, gli dei mandarono una famiglia di draghi. Essi iniziarono a sputare gioielli che si trasformarono negli isolotti della baia, unendoli poi per formare una muraglia contro gli invasori, e i vietnamiti vinsero. Ma anche nella storia reale questo territorio fu teatro di una famosa battaglia: nel 1288 l’eroe nazionale Hung Dao fermò le navi mongole. Ancora qualche notizia geo-naturalistica. Ha Long ha almeno 500 milioni di anni, ed è stata creata grazie a varie orogenesi che innalzavano e abbassavano il livello marino. A causa dello spesso livello di calcare, di un clima caldo-umido e del lento processo tettonico, ebbe un’evoluzione carsica che durò oltre 20 milioni di anni, producendo numerose bellissime grotte. Inoltre, la baia è un paradiso per diverse specie vegetali e animali, concniglie perlifere comprese…

Ma i nostri faraglioni, isolotti, scogli e grotte sopravvivranno ai cambiamenti climatici e all’assedio turistico, e per quanto? Ogni volta che vengo qui sono sempre più preoccupata. Gli alberghi sulle rive della baia che venivano utilizzati tempo fa sono tutti abbandonati, sembrano carcasse di una specie estinta;  le vecchie giunche a vela non ci sono più a solcare le acque turchine di questo paradiso terrestre … Oggi ogni persona che viene a Halong vuole fare una crociera, con le motonavi dotate di aria condizionata e ogni confort, tutto molto bello e molto inquinante… Dopo aver fatto le procedure d’imbarco, saliamo su una lancia che ci porta verso la nostra nave, La Regina Royal Cruise. Ci imbarchiamo e iniziamo navigare lentamente attraversando questa baia unica al mondo. La nave non è grande ed è quasi tutta a disposizione del nostro gruppo, oltre noi, c’è un altra coppia e una famiglia.  Abbiamo portato pochi bagagli, quindi ci sistemiamo in fretta. Le cabine sono belle e spaziose, il personale è gentilissimo, il cibo è ottimo, la cornice paesaggistica è più che incantevole. Anche il tempo è dalla nostra parte… Dopo il delizioso pranzo scendiamo di nuovo in lancia, che ci porta alla scoperta di un villaggio . Facciamo un’ulteriore spostamento, questa volta sulle piccole barche con un rematore per visitare questo stupendo villaggio anche dall’interno.  Ci rendiamo conto che la vita vera degli abitanti non è per niente facile nonostante da fuori tutto sembra romantico e idiliaco, Sulle zattere e barche del villaggio galleggiante Vung Vieng vivono più o meno stabilmente  pescatori e coltivatori delle ostriche perlifere, organizzati al meglio, con le vasche da coltivazione,  spazi dove bimbi giocano a palone, negozi e alcune case… altre sono sulle barche. Tornati sulla nostra nave partecipiamo ad un corso di cucina, dove impariamo a preparare gli involtini primavera.  Segue un breve relax che tutti passiamo ammirando il magnifico tramonto, e infine la cena, servita in maniera impeccabile, con tanta frutta e verdura intagliata in modo fantastico, festeggiamo il compleanno di A.  Alla fine della festa ci rechiamo nelle nostre cabine dove ci addormentiamo in fretta, dolcemente cullati dal dondolio della nave, sorvegliati dallo sguardo attento dei faraglioni sotto un cielo limpido e stellato.

xx xx, giovedì.  Di mattina presto sul ponte di sole della nostra nave fanno un corso di Tai Chi, antica disciplina ginnica derivante dalle arti marziali cinese che serve per migliorare la salute, utilizzando la fessibilità contro la durezza, movimenti circolaari contro movimenti diretti, apparente debolezza contro evidente agressività. La stanchezza ha fatto il suo e in molti abbiamo preferito dormire… per dire la verità avevo l’intenzione di partecipare, mi sono svegliata presto per fotografare l’alba. Faceva fresco, quindi sono rientrata in cabina per godermi ancora un po’ il calduccio del comodo letto. C’erano solo in quattro del nostro gruppo a partecipare la lezione Tai Chi che era – ci raccontano – molto bella. Ovviamente, a fare una piccola prima colazione ci siamo tutti; la più importante, tipo brunch sarà servita dopo la gita mattutina, nella quale andiamo a prendere di nuovo la lancia che ci porterà verso un isolotto, dove andremo a visitare una piccola e interessantissima grotta. Minh ci spiega che ci sono numerosi fenomeni carsici di vari tipi nella baia, interessanti sia dal punto di vista geologico così anche da quello storico: la “nostra” grotta per esempio oltre i stalattiti e stalagmiti conserva le ostriche fossili, e in passato fu probabilmente utilizzata dai pirati per nascondere il bottino. Ogni volta che vengo a Halong vedo luoghi diversi: c’e un laghetto interno ad un faraglione dove si entra quasi sdraiati sulla barchetta che ti porta dentro, tanto è basso l’ingresso. Ha le superbe pareti coperte di un verde lussureggiante e acqua color smeraldo, anch’esso utilizzato da pirati vietnamiti come nascondiglio,  per nascondere il bottino ma anche  per far sparire qualche cadavere, La più grande e più famosa è la grotta Hang Sung Sot ovvero grotta delle sorprese di 12000 m2,  mondo di stalattiti e stalagmiti, di formazioni a cui la fantasia umana ha dato diversi nomi e significati, oggi sottolineati con dei interessanti giochi di luce. Purtroppo, sempre affollatissima. La vista sulla baia … una meraviglia. Alla sera ci aspetta un corso di cucina, dove impariamo a preparare gli involtini primavera. Segue il ricco brunch dopo il quale salutiamo il meraviglioso staff della nave, ringraziando tutti di cuore per la loro gentilezza e disponibilità, e riprendiamo il pullman. In corso del viaggio è spuntata la richiesta per visitare una fabbrica delle perle, dove vengono prodotti gioielli, per tutte la tasche. Inoltre producono le creme fatte con polvere di perle, diventate famose in Italia grazie a un infallibile metodo pubblicitario, la passaparola. Quindi, facciamo una sosta nello stabilimento, dove ci viene spiegata la coltivazione dei differenti tipi di perle, in verità molto interessante. G. sapendo che andrà in Vientam, prende  per se un bel collier di perle barocche, regalo di compleanno da tutti i suoi famigliari; diverse signore comprano qualche crema o qualche monile meno costoso… Un po’ di shopping certamente fa parte del viaggio, ed è bello quando non è imposto dalle guide locali come tappa obbligatoria. Durante il viaggio Minh continua a raccontarci la storia del suo paese ma anche la sua storia personale… Attraversiamo i braci della delta di Song Hong, affluente del Fiume Rosso. Prima di arrivare al aeroporto di Hanoi, ancora una sosta presso un “autogrill”, per fortuna senza negozi… Ringraziamo nostro autista, e prendiamo il volo per Hué, il quale è in ritardo, obbligatorio da queste parti. Per fortuna, il volo è breve, di soli 45 minuti. Ci aspetta bellissima e tranquilla Hué, che oggi conta quasi 400.000 abitanti. La città fu l’antica capitale del Vietnam unificato dal 1802 al 1945, ed ha ospitato il regno di ben 13 imperatori della dinastia Nguyen. Andiamo nel nostro albergo, lo storico e centralissimo Hotel Saigon Morin, che nel corso della sua storia ospitò diverse celebrità, tra cui da ricordare Charlie Chaplin. Sono alberghi che amo molto, e se posso inserirgli in un nostro tour, sono molto felice. Edificato nello stile coloniale, anch’esso è un museo vivente. Entriamo brevemente nelle stanze e scendiamo subito per la cena, servita nel elegante giardino interno. Viene proposto un squisito menù che è mix delle tradizioni vietnamite e francesi, ambedue ottime. M. mi confida che, preoccupata per i difficili gusti di suo marito in materia di cibo, aveva preso con sè le scorte di cracker… ed è stupita che  riesce sempre trovare qualcosa che piace. Ovviamente, sono contenta che tutto va bene. Dopo la cena la gran parte del gruppo esce per fare quattro passi.  In fronte del albergo c’è il ponte Eiffel.

 

xx xx, venerdì.  Al mattino eravamo minacciati dalla pioggia che si esaurì in meno di cinque minuti. Così abbiamo potuto fare nostra (ricchissima) colazione nel giardino. Quindi carichiamo i bagagli sul pullman e andiamo a visitare la Pagoda di Thien Mu, il cui nome significa Signora Celeste. Si tratta di una torre ottagonale alta 21 m. I sette piani rappresentano sette incarnazioni di Buddha: Vipasyin, Sikhi, Vishvabhu, Krakkuchanda, Kanakamuni, Kasyapa e Gautama. Odierno edifico è di 1844, costruito da imperatore Thieu Tri; il più antico era di 1600 e si basa su una profezia che dice che chiunque avesse fondato qui una pagoda, avrebbe avuto una lunga dinastia. L’imperatore Nguyen Hoang edificò la prima pagoda: infatti, il suo lignaggio è il testamento alla sua saggezza. In seguito visitiamo il Tempio del Grande Eroe che contiene una ricca collezione di statue, tra cui un Buddha che ride e diverse piccole statuette con le facce quasi caricaturali. Passeggiando attraverso curati giardini, scopriamo che il complesso della pagoda comprende una scuola-monastero per i giovani aspiranti monaci. Il Fiume dei profumi deve il suo nome agli innumerevoli bastoncini d’incenso che ardevano presso diverse pagode lungo il suo corso, anche se esistono quelli che lo attribuiscono alle profumatissime piante che vi crescono. Segue la visita al luogo più importante e più visitato di Hué, la magnifica Cittadella imperiale – Kinh Thanh, a circa 5 km della città odierna, circondata dai fossati e mura lunghe 10 km. La costruzione fu voluta dall’imperatore Gia Long della dinastia Nguyen ed iniziò nel 1802. Alla cittadella – patrimonio UNESCO –  si accede attraversando un fossato largo da 20 a 30 metri, tramite 10 ponti e 10 stupende porte fortificate. E’ stata eretta sul modello del Palazzo Imperiale di Pechino. Aveva una cinta muraria attorno le abitazioni, la seconda attorno gli edifici ufficiali e la terza che protegge la Città Purpurea Proibita, parte riservata all’imperatore e sue mogli, concubine e eunuchi al loro servizio. Dopo aver oltrepassato i Nove Cannoni Sacri si accede al Recinto Imperiale. Attraversando la magnifica Porta del mezzogiorno, la tripartita Ngo Mon, di cui il passaggio centrale era riservato solo all’imperatore, si vede il belvedere delle Cinque Fenici Ngu Phung utilizzato per i ricevimenti ufficiali, cerimonie e promulgazione del calendario lunare, seguito da due vasche con dei benauguranti pesci rossi. Visitiamo quindi il Palazzo di trono o dell’Armonia Suprema, Tien Thai Hoa, costituito delle gallerie coperte dai meravigliosi soffitti sorretti da principesche colonne in lacca di un rosso intenso.  Seguono le sale dei mandarini, i templi, i laghetti, il teatro, i giardini con i bonsai, le campane e gli incensieri, la biblioteca.  Infine entriamo nel Palazzo di Can Chanh, ovvero nell’area della Città Purpurea Proibita, di cui rimase solo la Sala di Lettura dell’Imperatore. Il resto fu distrutto nel gennaio di 1968, durante l’offensiva del Têt, quando Hué fu occupata dalle forze nord vietnamite. Siccome l’esercito del sud non riusciva a prendere la città, arrivarono i bombardamenti americani con l’ordine “di distruggere la città per salvarla”. Tra eserciti e i civili la battaglia abbia fatto oltre diecimila morti e distrutto quasi tutto il complesso imperiale, oggi ristrutturato, con grande fatica e perizia. Alla fine, prima di uscire dalla Città purpurea, ci sono gli splendidi giardini con bonsai, orchidee e altri fiori, nonche alcune vecchie Jeep americane e qualche magazzeno. A. fa mille e una foto delle orchidee: fotografare fiori è la sua passione. Uscendo dalla cittadella ci fermiamo in un negozio dove producono ventagli e tipici capelli a cono , di ottima qualità, vanto di Hué. Comprando questo simbolo del Vietnam, molti di noi avranno un bagaglio a mano in più. In seguito ci aspetta il giro della città sui ciclo, che ci portano a percorrere le vie caratteristiche della cittadina. Durante la gita attraversiamo i quartieri popolari dove possiamo vedere la gente che esercita antichi mestieri, passiamo a fianco dei superbi edifici e bellissime ville di tradizione coloniale francese, tornando al sempre presente lungofiume. Nel pomeriggio risaliamo al pullman  per visitare i complessi monumentali delle tombe imperiali, situate nelle vicinanze della città. Visiteremo la più bella e più importante di tutte: la tomba del imperatore Tu Duc. Il complesso si sviluppa su 12 ha e contiene una cinquantina di palazzi e padiglioni che si affacciano sul lago Luu Khiem.  Tu Duc usava questi edifici come residenza estiva, trascorrendo già durante la vita molto del suo tempo nel palazzo più eccezionale, il Luong Khiem. La tomba vera e propria di Tu Duc fu costruita in appena tre anni, dal 1864 al 1867, ma è solo un “simulacro”, cioè non contiene il corpo. Per evitare il saccheggio, l’imperatore  fu sepolto in un luogo diverso, mentre i 200 sfortunati operai che sapevano dove si trovava la tomba vera, furono decapitati dopo il funerale. Tuttora i resti della tomba non sono stati trovati. Ognuno è preso a fotografare quello che piace di più:  edifici, statue, mobilia, scritte, alberi, animali, persone …  M. insegue “segretamente” due monaci buddhisti che vuole immortalare senza “fastidio” delle altre persone;  P. e C. vogliono riprendere una farfalla che infine riesce a sfuggire ai loro “canoni”. In seguito ci fermiamo presso un pittoresco negozio specializzato nella produzione dei bastoncini profumati da noi detti “incensi”, fatti rigorosamente a mano e con le essenze naturali: come poteva prevedersi, facciamo la scorta anche qui . Nostro autista riesce ad incastrare alcuni bastoncini sotto la targa, accendendogli : è un rito benaugurante. Forse grazie al profumo dei bastoncini nostro viaggio in pullman prosegue benissimo… Continuiamo verso Da Nang e verso Hoi An, accompagnati dallo splendido paesaggio che cambia continuamente e dalle tante curiose scene che scorrono attraverso i finestrini, come in un doccumentario: ci sono motorini carichi di ogni genere di merci, ci sono placidi paesaggi lacustri, rigogliosi boschi, ordinate coltivazioni. Vicino alla laguna Dam Cau Hai scorgiamo le grandissime caratteristiche reti da pesca. Ci fermiamo presso un piccolo negozio lungo la strada, dove ci riforniamo di frutta: la proprietaria è molto contenta con i nostri acquisti e siamo contenti anche noi. In questo viaggio alcuni pranzi non sono stati inseriti nel programma su richiesta di tutti partecipanti: è  un bel modo alternativo di pranzare, socializzando con gli abitanti. Attraversiamo Da Nang, che ci accoglie con i suoi bellissimi ponti, pagode e le innumerevoli statue di Budda, ma non ci sono più vecchi hangar americani che ho visto altre volte quando passavo da qui.  Sono stati abbattuti nel 2017…. Il porto di questa città nel febbraio del 1965 fu luogo di sbarco dei primi 3.500 Marines della Nona Brigata, seguito da  altri 500.000 soldati americani… E fu sempre a Da Nang che dieci anni più tardi entrarono le colonne corazzate dell’Esercito del Nord per conquistare la città, simbolo della guerra del Vietnam, ed è da qui che iniziò la corsa che poche settimane dopo li avrebbe portati a Saigon. Da Nang fu quindi l’alfa e l’omega della Guerra del Vietnam,  un conflitto che costò la vita ai 58 mila americani e ai due milioni e mezzo di Vietnamiti. Insensato, come tutte le guerre… Abbiamo ancora molto da fare, due visite importanti, e giornata già sta per finire. La prima visita sarà veloce perche  il stupendo Museo di arte Cham chiuderà tra poco. Il museo, inaugurato all’inizio del XX secolo, per custodire i reperti della cultura Cham; sull’iniziativa della École Française d’Extrême Orient (EFEO), che fu ed è la protagonista della conservazione dei templi cambogiani.  Minh ci fa vedere solo i repertipiù importatni: si inizia con il periodo My Son, del IV secolo d.C., con particolari dei templi e delle torri dedicati alle divinità e ai re. Segue la collezione della scultura Cham del Vietnam, con circa 300 opere in arenaria e terracotta  che illustrano l’evoluzione dell’arte plastica dal VII al XV sec.  C’è  tanto altro ancora, ma dobbiamo sbrigarsi, facendo qualche foto dei “reperti minori” che in seguito scambieremo sul gruppo.  Come sempre nei nostri tour, è un peccato non avere più tempo… Già nella baia di Halong abbiamo capito che il suolo del Vietnam, con numerose montagne calcaree, il clima tropicale e la vicinanza al mare, rappresenta un ottimo terreno per sviluppo delle numerosissime grotte. Tra diverse migliaia che possiede, la terra vietnamita  vanta la grotta di Son Doong, scoperta nel 1991, considerata la più grande e tra le più belle del mondo. Per ora non è aperta alle visite turistiche: per visitarla bisogna seguire un protocollo rigido, pagare oltre 4000 US$ per un’escursione di 7 giorni, con accesso limitato a 10 persone per volta. Noi visiteremo una grotta di dimensioni più modeste situata nelle famose Montagne di Marmo, in realta di granito. Doveva essere visitata la Am Phu, detta grotta dell’Inferno, ma l’abbiamo trovata chiusa. Minh telefona al custode chiedendo di aspettarci un po’ per poter visitare la grotta Hoa Nghiem, o del Nirvana, altrettanto bella e curiosa. Si narra che le Montagne di Marmo sono nate così: un vecchio eremita stava pescando nelle acque del Mar della Cina quando un drago uscì dall’acqua per depositare un uovo sulla costa. Appena il drago tornò nelle acque, venne una tartaruga d’oro, che sosteneva di essere il dio Kim Quy, e incaricò il vecchio di proteggere l’uovo del drago. Il vecchio si riteneva incapace di far fronte ai pericoli e decise di seppellire l’uovo. L’uovo lentamente crebbe, e, una volta maturo, si ruppe in 5 pezzi, formando i 5 elementi che a loro volta formarono le montagne di marmo a Da Nang. I nomi sono cantati da un’antica canzone, e sono: Hoa Son (fuoco),  Kim Son (metallo), Tho Son (terra), Thuy Son (acqua) e  Moc Son (legno). Ed è da allora  che le cinque vette – cinque figli ddi dragone – che compongono Montagne di Marmo, risultano piene di misteri.  Prendiamo l’ascensore, l’ultima corsa che aspettava solo noi grazie all’intervento di gentilissimo Minh. Stiamo per salire al monte Thuy Son, dedicato all’acqua, luogo sacro per gli anacoreti buddhisti che custodisce la grotta Hoa Nghiem, detta del Nirvana o del Paradiso. E’ celebre per il suo straordinario sistema di pagode e santuari di cui una parte si trova fuori, sulle pendici del monte, e l’altra invece all’interno della montagna. La grande pagoda Tam Thai si trova sulla cima di 156 gradini di pietra.  L’ascensore ci ha portato fino ad essa, a adesso ci spetta ad adentrarsi nel cuore della montagna. Visitiamo  le pagode Non Nuoc e Tu Tham, varie sculture situate in piccoli giardini scenografici, tra cui ci colpisce un  Budda circondato dagli animali. Alcuni di noi l’associano a San Francesco che parla agli animali, altri al Presepe. Le grandi cavità interconnesse sono costellate dalle altre statue di Budda collocate tra stalattiti, stalagmiti, passaggi, scalinate, altarini che tutti insieme formano un spazio molto suggestivo. Infine il custode che vive qui da diversi decenni ci butta fuori. Infine il custode che vive qui da diversi decenni ci butta fuori, per ringraziarlo lascio una piccola mancia… Siamo gli ultimi visitatori. Scendiamo con grande cautela i famosi 156 gradini perché l’ascensore non lavora più. Oltre la  le Montagne di Marno custodiscono la grotta Am Phu, detta grotta dell’Inferno, che questa volta non abbiamo  potuto visitare, ma comunque la racconto. Per entrare bisogna affrontare una ripida salita, cosidetta salita al cielo, per poi scendere all’inferno. Il percorso è insidioso e scivoloso, un spiegarsi di  numerose sale e passaggi con le statue di scheletri, demoni e altre scene appartenenti al inferno buddista, immaginato come una grande prigione popolata da immagini che sembrano uscire da un film horror. Finalmente ci dirigiamo verso nostro albergo Rosemary boutique hotel. È un albergo nuovissimo, di design contemporaneo, situato nella zona semicentrale di Hoi An. Minh ci spiega che la tranquilla Hoi An con i suoi 130.000 abitanti è diventata una delle molte città del Vietnam che crescono vertiginosamente grazie al sviluppo turistico.  Dopo aver preso le chiavi e fatto una doccia veloce, usciamo per la cena, che sarà servita in un  ristorante tipico, situato sulla riva del fiume. Dopo cena, i ristoratori ci offrono piccoli lumini sistemati nelle lanterne-ciotoline di carta: ogni lumino va acceso, accompagnato da un desiderio e adagiato dolcemente sulla superfice tranquilla del fiume che lo porterà lontano, nel paese dove desideri vanno esauditi  … una immagine bellissima per augurarci buonanotte.

xx xx, sabato.  Dopo la colazione, fatta molto presto,  iniziamo le visite del piccolo centro storico della città di Hội An, conosciuta oggi come “Venezia del Vietnam” perché poggia sull’acqua. E’ detta anche “città romantica” a causa della delicata illuminazione notturna dovuta alle lanterne di carta o di seta,  ma  in passato fu di tutt’altra vocazione. La città, bagnata dal fiume Thu Bon, era un importante centro commerciale e un grande porto. Questa sua vocazione si rispecchia nell’architettura che è un mix di stili appartenenti alle diverse epoche. Possiamo ammirare i templi e le case dei mercanti cinesi in legno, i colorati edifici coloniali francesi, le ricercate “tube house” vietnamite, bellissimi giardini di derivazione giapponese,  gli edifici di utilità mercantile come i magazzini e i mercati e ovviamente, un bel lungofiume.  Le influenze delle tradizioni cinesi, giapponesi e francesi hanno valso a Hội An il riconoscimento del patrimonio UNESCO. Per fortuna, il vecchio quartiere della città attraversato da innumerevoli canali e stradine è rimasto intatto dalle guerre, in parte perché  la maggior parte degli attacchi fu concentrata sulla vicina Hué, che pagò davvero un prezzo carissimo. Iniziamo la nostra visita fermandoci vicino ad una replica della nave mercantile giapponese, dove la nostra bravissima guida ci spiega l’importanza di questo porto a partire dal XVI secolo. Ci addentriamo nella città, un delizioso museo all’aperto, con bar, negozietti, venditori ambulanti, arrivando tra mille tentazioni al Ponte giapponese,  (Chua Cau) un ponte coperto, testimone dell’ultima fioritura commerciale della città, costruito da un mercante giapponese in uno stile più sobrio rispetto quello vietnamita. E’ datato al 1593, e voleva unire il quartiere giapponese dell’ovest con il Chinatown ad est. Entrambe le estremità del ponte sono custodite dai due Guardiani mitologici, il cane e la scimmia. Nel XVIII secolo all’ingresso della costruzione è stata posizionata una targa lignea che riporta:  il ponte per i visitatori venuti da lontano. All’interno del ponte vi è una minuscola pagoda con il tempietto dedicato alla  divinità Tran Vo Bac De, ritenuto in grado di controllare le condizioni atmosferiche.  Segue la visita all’Edificio della congregazione cinese di Fujian, il più grande e il più sontuoso tra gli edifici  appartenenti alle cinque assemblee straniere di Hoi An.  Fu costruito come centro per la socializzazione e per gli scambi commerciali tra gli immigrati fujianesi, con il tempio dedicato alla dea del mare Thien Hau. La struttura viene tuttora utilizzata per celebrare numerose festività, tra cui il compleanno della dea. Si accede attraverso tre porte riccamente decorate: il cortile è pieno di statue e di bonsai, con una fontana a forma di drago al centro. I muri sono stracarichi di dipinti e incisioni con scene mitologiche e storiche. Nella sala principale si trova la statua di Thien Hau, seduta e raccolta in meditazione, cirdondata dalle figure delle divinità capaci di udire e vedere da enormi distanze.  Infine c’è la statua della dea della fertilità e delle sue 12 ostetriche che regalano ai neonati l’appetito, il sorriso e altri beni, ragione principale per cui tuttora le coppie senza figli vengono qui a pregare. Per fortuna, siamo partiti presto e durante le nostre visite le due principali attrazioni della città non sono state ancora prese d’assalto. Proseguiamo lungo la via Tran Phu, ccosteggiamo il mercato.  Entriamo nella piccola pagoda dedicata a Quan Am, e nello tempio di Quan Cong.  Hoi An è piena di dimore storiche : la casa di Phung Hung, la casa di Quan Thang, la casa di Duc An… alla fine visitiamo la casa di Tan Ky, appartenente ad un ricco mercante cinese, nello stile che mescola diverse tradizioni architettoniche con interessanti arredi e corredi, tra cui alcuni antichi mobili “made in Italy”.  Tutto in questa città sembra uscito dalle pagine di una fiabba: sopra le strade lieve dondolio delle coloratissimelanterne, ogni portone e ogni finestra è una sorpresa che fa scoprire un bel cortile, i piccoli negozi dove oltre soliti souvenir spesso “made in China” riusciamo trovare stupendi oggetti fatti a mano.. Ci dirigiamo verso fiume dove  incontriamo una straordinaria e intraprendente modella vietnamita, equipaggiata da caratteristico bilanciere e con i suoiben portati 82 anni!  Poi chiachieriamo con un altro vecchietto, con uno stupendo viso e una bella barba bianca, che con suoi 86 anni ancora tiene un negozio di libri… Infine troviamo una coppia di giovani sposi che posava sulla riva del fiume: ci volevano per abbassare la media delle persone fotografate. Stamattina abbiamo deciso di affittare una barca. Essendo una città portuale, che vive sull’acqua e grazie ad essa, vederla dal lato fiume rappresenta un esperienza importante ed interessante; in più non si cammina, ed è rilassante. Sulla barca alcuni di noi, A. con G., B. e C. e D. e G. salgono sul ponte superiore, per godersi la stupenda giornata di sole. Mentre navigavamo, dovevamo passare sotto un ponte particolarmente basso.. all’ultimo momento ricordo che il capitano ci ha avvisato che non si può stare sopra quando si passa sotto i ponti … corro verso la scala che porta al pontile superiore gridando “giù, giù, giù”. Per fortuna tutti capiscono, si abbassano in fretta e passano sotto il ponte senza nessun danno … così si capisce per che cosa serva l’accompagnatore. Finito il delizioso giro in barca, scendiamo attraversando il mercato e camminiamo per la città fino ad arrivare a una cooperativa che produce e lavora la seta. Ci mostrano ciò che fanno: dalla coltivazione dei bacchi, fino ai prodotti finiti: lanterne, abbigliamento e ricamo. Le tentazioni per il portafoglio sono enormi: ci sono abiti tradizionali, camice, sciarpe, lanterne…. Abbiamo un po’ di tempo  libero, ognuno vaga per proprio conto: chi per pranzare, chi  per fotografare, chi per comprare. D. ha comperato un ao dai, abito tradizionale vietnamita del taglio molto elegante; essendo minuta e magra, sta benissimo.

Il pomeriggio sarà dedicato alla visita di Golden Bridge, in vietnamita: Cầu Vàng.  Questo ponte pedonale è situato nell’area collinare di Ba Na.  Una funivia porta dal paese in basso verso la cima della montagna, dove si trova il famoso ponte, progettato dalla TA Landscape Architecture, per collegare la stazione alta della funivia con dei giardini del resort situati sul altro monte ed istituiti nel lontano 1919 dai francesi. La funzione principale del ponte è di fornire un’attrazione che possa far aumentere il turismo di questa zona montana. Il numero dei visitatori, quasi tutti dell’area asiatico, lo conferma : oltre il ponte, la zona vanta la straordinaria bellezza del paesaggio e un ottimo clima. La struttura, di lunghezza di 150 metri è sorretta da due enormi mani di pietra, d’aspetto vecchio e usurato, affinché sembrino antiche. Ciascuna delle mani misura 24 per 13 metri, e ciascun dito ha un diametro di 2 metri, mentre l’impalcato metallico della struttura pedonale è di color oro.  Il Golden Bridge, di cui si gode una vista mozzafiato, ha  costato 2 miliardi di dollari, ed è stato inaugurato nel giugno 2018. Anche il resto della location di Ba Na è bellissima. E’affollatissima, e noi rappresentiamo con orgoglio una minoranza assoluta di visitatori europei tra un mare dei turisti asiatici. Quando arriviamo, ci accoglie una grande struttura ricettiva, molto curata con edifici in stile vietnamita, con ponti e laghetti, fiori e alberi… facciamo una passeggiata e entriamo in un padiglione da dove parte la funivia che ci porterà al ponte. Tutto il personale è già nei costumi natalizi, natalizia è anche la musica, si respira aria un po’ consumistica del tipo occidentale. Ma la natura che ci circonda e che vediamo già dalla funicolare è magnifica, nessuno di noi immaginava un Vietnam così. Attraversare il Golden Bridge è un esperienza particolare: oltre la vista, il Ponte regala una sensazione unica di sentirsi sospeso. Il sito vanta stupendi e curatissimi giardini, una grande statua di Buddha e tante altre strutture più piccole ma non meno interessanti e curiose. Ringrazio G. e C. per aver avuto quest’idea di inserire questa bella e insolita visita nel programma, e tutti quanti per averla accettata. è bello creare i viaggi insieme, sempre si diventa più ricchi. Anche il nostro caro Minhci confessa che è la prima volta che visita il ponte. Infatti, per ora non si trova nei programmi per i viaggiatori  che provengono dall’Italia e dall’Europa. 

Proseguiamo per l’aeroporto di Da Nang, ringraziando l’autista che era il nostro angelo custode sulle strade del Vietnam centrale. Minh sarà con noi anche a Ho Chi Minh City, città dove attualmente vive con la famiglia. Il volo, come abbiamo temuto, è in ritardo. Minh è gentilissimo, essendo lui Frequent flyer mi cede il suo posto nella bussines class dove mi servono dei dolcetti, succo e un ottimo tè, nonché i giornali che non riesco leggere: in Vietnam si scrive con caratteri latini grazie al sistema creato dal gesuita Alexandre de Rhodes, ma la lingua è austroasiatica, del gruppo monkhmer. Arrivati, cerchiamo di arrivare in ristorante. Il traffico è a dir poco … impressionante. So che i due terzi del traffico vengono effettuati a due ruote, so che ci sono milioni di motorini nella città, so che Ho Chi Minh City è una megalopoli asiatica … ma ogni volta che torno rimango di nuovo stupita da questo animale mitologico metà uomo-metà motorino che come un fiume in piena straripa  e inonda l’intera carreggiata.  Decidiamo di andare direttamente o all’ ristorante Ha Noi (è nome del ristorante, non della città) Minh non mangia con noi. Ci dispiace, ma lui ci spiega che sono ristoranti troppo costosi per le guide locali: preferisce mettere due soldi in più in tasca, e  stare con la moglie e figli. Stabiliamo l’orario di ritrovo per domani, e dopo cena andiamo al nostro Orchid Hotel, situato in centro, nel primo distretto. Facciamo check-in, e chi ha voglia fa due passi con me nel primo distretto della città tuttora porta il nome di Sai Gon.  Sono emozionata, ormai conosco bene la magia di Sai Gon, i suoi meravigliosi palazzi coloniali, le variopinte luci degli Skyscrapers sempre più alti, i negozi di lusso chiusi e i locali di diverse tipologie aperti, ad offrire vari servizi senza sosta, giorno e notte. Sulle strade c’è tanta gente. Fa caldo. C’è chi vende cibo e chi mangia,  ci sono bimbi che corrono e gli innamorati che camminano abbracciati, ci sono lavoratori stanchi sui motorini … mi viene voglia uscire per abbracciargli tutti, ma sono stanca anch’io ed e meglio sbrigarsi e andar dormire..

xx xx, domenica. Dopo la prima colazione partiamo per la nostra escursione, finalmente senza valigie. La prima visita è dedicata al Museo della Guerra del Vietnam, un altro fuori programma che abbiamo deciso di inserire. Nell’area esterna sono esposte macchine belliche americane che i Vietcong hanno catturato: aerei, elicotteri, carri armati, bombe, artiglieria contraerea, lanciafiamme, ecc. All’interno al piano terra troviamo una raccolta delle reazioni mondiali sulla guerra in Vietnam: fotografie, manifesti e articoli di giornali, a cui segue un video esplicativo. Il primo piano e focalizzato sugli effetti dell’uso dell’agente arancione sulle persone e le atrocità commesse dagli americani durante la guerra, con la documentazione fotografica e i rispettivi video. Segue un’area con le armi americane; dopo di esse vediamo la raccolta di fotografie parallele, di cui la prima ci mostra le città vietnamite devastate, quella accanto invece ci fa vedere la stessa zona fotografata dopo la ricostruzione. Al secondo e ultimo piano si trovano gli effetti donati dalle associazioni americane e dai veterani, prevalentemente fotografie che rappresentano un quadro diverso da quello che può essere visto al primo piano.  E’ sempre toccante la foto di Kim Phuk, la bambina nuda in fuga dalle fiamme…   La nostra guida Minh, raccontando i fatti ci trasmette tanto amore per la sua patria e infine ci indirizza al piccolo spazio espositivo dove compriamo alcuni oggetti realizzati dai disabili, vittime della guerra. Nonostante siano trascorsi quasi cinquant anni dalla fine del conflitto, il Vietnam continua a pagare un prezzo altissimo per quella guerra. Gli erbicidi, in primis il famigerato defogliante “Agente arancio” contenente diossina, utilizzati dall’esercito americano continuano a inquinare e avvelenare gli ecosistemi e le persone che li abitano. Irrorando il Vietnam del Sud con oltre 75 milioni di litri di erbicidi, gli Stati Uniti hanno contaminato oltre due milioni di ettari di foreste, avvelenato raccolti e corsi d’acqua e causato malformazioni e gravi disabilità in migliaia di bambini nati dopo la guerra. Le aree sono rimaste contaminate fino ai nostri giorni e i bambini con mutazioni genetiche dovute ad avvelenamento da diossina nascono tuttora… E’ terrificante incontrare i figli di terza o di quarta generazione nati con gravissime malformazioni, ma è una cosa meravigliosa vedere almeno una parte di loro che riesce fare qualcosina, che riesce ad integrarsi nella società.  Certo, e solo una parte che è riuscita ad integrarsi, sono pochi “fortunati”, ma è bello vedere che esistono i sforzi e la volontà di integrazione. In passato né ho visti altre strutture con le piccole produzioni artigianali partecipate da queste persone che tuttora pagano le conseguenze di un assurdo che è la guerra ….  La nostra visita era breve ma intensa e proseguirà  durante il tragitto verso Cu Chi: dati che ci fornisce Minh sono spaventosi e comprendono deformità fisiche, gravi problemi mentali, spesso non curate adeguatemente perche la povera gente della campagna e degli immensi sobborghi delle grandi città non si può permettere cure costose… un grande dolore.

 Ma prima ci fermiamo in una vicina fabbrica delle lacche, l’orgoglio della produzione artigianale vietnamita. Lacca viene prodotta con una resina  che proviene dalla linfa di un albero chiamato “laquier”. Estratta per incisione al momento della raccolta è inodore e di colore paglierino, rapidamente diventa di colore nero brillante, molto resistente sia al liquido caldo che freddo. La laccatura richiede mesi di lavoro. Si inizia con una forma realizzata in bambù o in legno, su cui viene steso a mano il primo strato, composto di resina e argilla molto fine. Questo strato viene pulito e spazzolato, e l’oggetto viene in seguito ricoperto di una pasta, in cui vengono inseriti i gusci d’uovo frantumati, le sottili forme in madreperla, oppure viene lavorata con disegno a incisione. L’oggetto viene in seguito spazzolato e lucidato; la procedura che si ripete ogni volta che vengono applicati nuovi strati di lacca pura, da 4 a 12 e più volte. L’indurimento di uno strato di lacca richiede almeno una settimana in un luogo buio, caldo e umido. Gli oggetti sono realizzati interamente a mano, seguendo le tecnica trasmessa di generazione in generazione.

Proseguiamo in pullman per visitare i tunnel presso la cittadina Cu Chi.   I tunnel vennero costruiti a partire dagli anni quaranta dai guerriglieri Viet Minh per essere impiegati come nascondigli durante la lotta contro il colonialismo francese. Furono poi ampliati e riutilizzati dai Viet Kong, che combattevano contro le forze del Vietnam del Sud e degli Stati Uniti. Hanno avuto un ruolo fondamentale nella guerra di sfinimento contro gli USA, che avevano una delle basi più grandi a Cu Chi. Qui si preparò l’offensiva del Tet che sancì l’inizio del disimpegno americano in Vietnam, qui si è riuscito a resistere ai bombardamenti americani creando sotto terra una incredibile rete di magazzini, dormitori, infermerie, cucine e posti di comando collegati tra loro da 250 chilometri di cunicoli e gallerie Iniziamo la nostra visita in uno spazio dove ci viene proposto un vecchio documentario introduttivo, redatto nello stile propagandistico dell’epoca che racconta la vita nella città sotterranea di Cu Chi.  In seguito ci adentriamo nel sito: entriamo nelle gallerie e nei pozzi, osserviamo i manichini, ci arrampichiamo sul carro armato, guardiamo le trappole. Minh ci spiega come le trappole e le tecniche mimetiche venivano utilizzate dai Viet Kong, ringraziando ancora una volta le manifestazioni pacifiche dell’occidente che hanno aiutato il popolo vietnamita ad essere compreso.  Tornando verso Ho Chi Minh City, nelle vicinanza di Cu Chi facciamo una breve sosta per vedere da vicino una piantagione degli alberi della gomma, Hevea brasiliensis, una Euphorbiacea. Quest’albero è la fonte primaria per la produzione del caucciù che si ricava attraverso la lavorazione del lattice che viene  estratto praticando le incisioni sulla corteccia. La pianta, la cui vita media si aggira fra i 35 e i 40 anni, viene sfruttata a partire dal quinto o sesto anno d’età e garantisce la massima produzione intorno al dodicesimo anno di vita: le incisioni corticali vengono effettuate ortogonalmente ai canali laticiferi in modo che la crescita dell’albero non venga disturbata. Il lattice viene raccolto in piccole ciotole legate al tronco. 

Durante la nostra giornata abbiamo visto tantissime cose, abbiamo imparato molto, ma il perché della guerra sta diventando ancora più inspiegabile nelle nostre menti. Un assurdo che mai è servito e mai servirà a nulla … Sarà possibile prevenire le guerre, estirparle dalla società?  Tornati a Ho Chi Minh City ci rechiamo al quartiere Cho Lon, la Chinatown locale, con il tempio di Thien Hau e il mercato Binh Tay. Segue la visita della Pagoda Thien hau, un bel edificio del 1760, dedicato alla dea del mare Mazu, protettrice dei viaggiatori. Entrando si può ammirare il tipico tetto cinese coronato con sfarzose e variopinte figurine in porcellana. L’interno è composto da un cortile parzialmente coperto, con dei grandi incensieri, al termine del quale si trova l’altare, dove spiccano le tre statue della dea del mare., Davanti ad esse bruciano decine di grandi spirali d’incenso, che i fedeli appendono esprimendo una preghiera e un desiderio, anche noi ne abbiamo comprato e acceso una. Un’altra usanza praticata è comprare un uccellino e liberarlo. L’intento è bello, la pratica molto meno: c’e una gabbia piena davanti il tempio, ma gli uccellini vengono subito ricatturati e rimessi in gabbia, . In seguito visitiamo Binh Tay: è un mercato coperto enorme, gestito prevalentemente dai cinesi nativi di questa città. È pieno di ogni sorta di merce, tra cui scarpe, cappelli, borse, stoviglie, carne, verdure, spezie…. Ma tra tutti i prodotti destano la nostra curiosità le creature marine essiccate: oltre il pesce, le oloturie ritenute potenti anticancerogeni; i cavallucci marini noti come afrodisiaci… poi ci sono le code di lucertole, i nidi di rondine, le tendini di alce  e vari funghi della medicina tradizionale cinese. Infine, il wet market che vende animali esotici e non vivi, diventato tristemente conosciuto per la storia legata al Covid che – sembra – ebbe il suo primo focolaio al wet mercato di Wuhan. Concluse le visite presso il quartiere Cho Lon, ci rechiamo verso Cong Xa Paris, grande piazza su cui sorge bellissimo Ufficio Postale, tuttora funzionanete. Assomiglia a una stazione ferroviaria europea ed è progettato in ferro e vetro da Gustave Eiffell nel 1891, periodo in cui Vietnam faceva parte dell’Indocina Francese. Sulla piazza si trova anche la Cattedrale di Notre Dame. Oggi è domenica, vogliamo entrare nella chiesa cattolica più grande e più importante del Vietnam, ma non è possibile. In corso c’è la S. Messa in lingua vietnamita e non ci lasciano entrare: infine riesco a convincere una volontaria che ci permette di affacciarci all’ingresso di questa bella chiesa costruita nello stile neoromanico. Facciamo un breve salut alla statua della Madonna che svetta nel centro della piazza e in seguito risaliamo in pullman per rientrare in hotel. Dopo una doccia veloce il pullman ci porta verso il centro del primo distretto. Ci dirigiamo verso la piazza Ho Chi Minh, passando accanto bianchissimo edificio del Teatro dell’Opera costruito nello stile liberty. Ci sono tanti lavori in corso da queste parti, ci sono tanti negozi con le vetrine illuminate, c’è una grande fontana appena inaugurata, ci sono celebri alberghi francesi: Majestic, Central Liberty, Grand hotel Saigon, uno più bello dell’altro… In verità Ho Chi Minh City con il suo distretto centrale, Saigon ha l’aria della capitale molto di più rispetto ad Hanoi. Facciamo le foto con la statua di zio Ho alla piazza centrale, davanti il Parlamento regionale, con la nuova grande fontana a forma di loto, con l’edificio dell’Opera, con …. Sai Gon, mon amour… un mito esotico narrato da Marguerite Durras, una città raccontata da Tiziano Terzani, un ricordo indelebile scritto da Paul Hoover … Il fulcro è la Dong Khoi, strada di cui nome significa insurrezione e che fino al 1954 si chiamava Rue Catinat, citata in “Un americano tranquillo” di Graham Greene. Il leit motiv di Saigon odierno è “No politics and no religion too”: era il motto del Vietnam stock-exchange e del WTO, l’Organizzazione mondiale per il commercio, di cui Vietnam è il 150 membro dal 2007. Tutto è cominciato nel 1986, quando il 6 Congresso del Partito ha proclamato “Doi Moi”, la politica di liberalizzazione. Nel 1995, con l’adesione all’ASEAN (l’associazione dei Paesi del Sud-est asiatico), la riapertura delle relazioni con gli USA e l’accesso ai prestiti del Fondo Monetario, il Vietnam è entrato nel mercato globale. Saigon è tornata a esserne il cuore: concentra due terzi degli investimenti stranieri e un terzo della produzione manifatturiera, da sola realizza il 35 per cento del PIL ed è divenuta un hub del traffico commerciale tra diversi paesi dell’ASEAN. Quindi, tutti hanno ripreso a chiamarla Saigon anziché Ho Chi Minh City, come fu ribattezzata in onore di fondatore della patria il primo maggio 1975. Era il giorno successivo alla Giai Phong, la liberazione, dopo ventinove anni di guerre. Ufficialmente, il termine Sài Gòn indica solo il Distretto Uno di Hồ Chí Minh … quanta storia, quante storie, scritte e non scritte Ci sparpagliamo, ci perdiamo, ci ritroviamo, ci perdiamo di nuovo e quando ci ritroviamo l’orario prestabilito dell’inizio cena è passato da  tre quarti d’ora. Alle 20,45 siamo al Dining room, un ottimo ristorante dietro l’Opera, dove mangiamo davvero benissimo. Mi dispiace che G. non stia tanto bene, soffre di mal di gola, ma sembra che dopo aver preso l’antibiotico, va meglio. Torniamo in hotel per preparare le valigie che stanno diventando sempre più pesanti.

xx xx,  lunedì. Dopo l’ottima colazione, partiamo; di nuovo viaggiamo con le nostre valigie. La strada ci porta verso la delta del fiume Mekong. Mentre usciamo da Ho Chi Minh City, Minh racconta alcune cose che riguardano la città dove vive con la sua famiglia. Hồ Chí Minh City, con oltre 10 milioni di abitanti è divisa in ventidue distretti, di cui cinque rurali.  L’area era in origine paludosa, probabilmente abitata dai Khmer. Fu nel settecento che un nobile, Nguyen Phuc Chu aiutò la Sài Gòn rurale a diventare un insediamento significativo. Durante il periodo coloniale la città crebbe sotto l’influenza dei francesi i cui testimoni sono i bellissimi edifici art decò del centro. Nel 1954, i francesi vennero sconfitti dai Viet Minh, si ritirarono dal Vietnam del nord dando l’appoggio all’imperatore Bảo Đại al sud, con Saigon capitale; questo status continuò anche quando il Vietnam venne ufficialmente diviso in Nord (Vietnam Democratico socialista) e Sud (con il presidente Ngô Đình Diệm); ovvero il periodo della guerra con gli USA: alla conclusione, nel 1975, le forze del Fronte di Liberazione conquistano la città: per gli uni fu la “caduta di Saigon”, mentre per gli altri fu la “liberazione di Saigon”. In seguito, il nome Sai Gon, come già detto, fu cambiato in Ho Chi Minh City. Uscendo dalla città,  attraversiamo diversi quartieri poveri, dove ancora regnano tante malattie, tra cui la temuta febbre denge. In seguito la strada si snoda tra le verdissime risaie. Facciamo una sosta presso un bel agriturismo, Bac Kim Thang, dove, purtroppo sono senza corrente e non riescono a farci il caffè. Cominciamo ad attraversare i primi bracci della grande delta del Mekong, ma prima – su mia apposita richiesta – ci fermiamo presso un santuario locale dei fedeli caodaisti, che so che piacerà molto. Cao Dai (il cui nome significa Luogo elevato o Grande Palazzo) è un movimento religioso fondato presso Tay Ninh, (tuttora sede principale della religione) nel 1926 da Ngo Van Chieu, un funzionario statale che praticava il spiritismo. Nella seduta spiritistica avvenuta nella notte di Natale del 1925 ebbe una rivelazione di Dio che gli ordinanò di creare una nuova religione. Cao Dai è una religione sincretica che mescola dottrine orientali e occidentali, venerando la divinità prestate da molte religioni, tra cui c’è Krishna degli indù,  l’imperatore tartaro Huang Vong, i cinesi Li Bai e Sun Yat-sen,  Mosé ebraico e Gesù cristiano, Lao Tse e Buddha, Confucio e Maometto, poi Giovanna d’Arco, Victor Hugo, Sant’Antonio Abate. La chiesa caodaista di Cai Be, che per il nostro gusto appare un po’ pacchiana, incuriosisce molto. Ha la volta sostenuta da pilastri avvolti da un dragone, con il capo all’altezza dei fedeli; Dio è rappresentato come un occhio iscritto in un triangolo, e il tutto è dipinto con dei colori sgargianti. La gerarchia del movimento è simile alla quella della chiesa cattolica, con la differenza che le donne possono raggiungere il titolo “cardinalizio”. Oggi vi sono circa 8 milioni di fedeli in Vietnam.  Dopo la visita della chiesa ci dirigiamo all’imbarcadero di Cai Be, dove saliamo sulla nostra barca che ci porta tra (pochissime) barche del celebre mercato galleggiante. Non è più quello di una volta, perché oggi la maggior parte del commercio  si svolge con telefonini. Comunque, l’escursione è molto interessante: incontriamo diversi tipi d’imbarcazioni, ammiriamo le case che sorgono ai bordi di fiume e alla fine ci fermiamo presso una fattoria-laboratorio. Ci fanno la dimostrazione della produzione di riso soffiato. Assaggiamo le tavolette di riso soffiato nei vari gusti, e, comprovata la qualità, né riempiamo i cestini. L. fa una commissione ordinatale da una sua amica, finalmente ha trovato le caramelle giuste. Infatti, durante il viaggio sempre cercava le cose che hanno ordinato le sue amiche, dice che questa è ultima, che adesso comincerà a pensare a sé stessa… io provvedo a prendere la scorta di unguento con il veleno di cobra, unico rimedio che aiuta l’artrite di mia mamma. La crociera prosegue verso un’altra località dove ci aspetta il pranzo presso un piccolo agriturismo; tra le altre pietanze c’è il pesce elefante, molto buono e di una particolare presentazione. Il pranzo è ottimo, la natura che ci circonda è stupenda, le orchidee, i banani, varie piante tropicali che sfoggiano i loro fiori curiosi, e le amache a nostra disposizione  fanno sì che facciamo fatica ad alzarci per proseguite… Dobbiamo arrivare a Chau Doc, la città capoluogo dell’omonimo distretto, al confine con la Cambogia. Minh racconta che la città fu il luogo da cui i vietnamiti invasero la Cambogia per liberare la popolazione cambogiana dagli orrori del regime totalitario di Pol Pot.  Assistiamo a un spettacolare tramonto tropicale: breve, intenso e indimenticabile. Lo specchio d’acqua delle infinite risaie diventa per pochi minuti una lastra di color arancio fuoco. Pernotteremo presso Victoria Sam Nui Lodge, situato sulla montagna Sam, presso il parco nazionale di Tram Chim.  Sam è la “montagna” più alta del Delta del Mekong, situata nella parte occidentale della città di Chau Doc. Nonostante sia alta solo 230 metri la sua cima offre la vista su uno dei paesaggi più belli del Vietnam. Purtroppo, il nostro gruppo è arrivato di notte, quindi la campagna circostante, vietnamita e cambogiana, la potremo ammirare solo domani mattina. L’albergo è molto particolare, siamo sistemati nei bungalow costruiti nello stile coloniale, con letti coperti dalle ampie zanzariere e arredamento singolare. Ci accomodiamo nelle nostre ampie stanze, mangiamo nel ristorante presso l’albergo e andiamo a nanna promettendo a noi stessi di alzarci presto per ammirare l’alba.

 

xx xx, martedì.  Dopo un’ottima colazione carichiamo le valigie sui pullmini (il pullman non può arrivare al lodge), poi riprendiamo il nostro pullman nella città.  Ci dirigiamo all’imbarcadero di Chau Doc: a Cambogia questa volta ci porterà una motonave. Viaggiando sulla nave per fortuna non avremo il problema del peso dei bagagli che sempre crea qualche inconveniente imbarcandosi sul aereo. Salutiamo l’autista, salutiamo nostro Minh che è emozionato: abbiamo condiviso questi magnifici otto giorni, è stato un compagno di viaggio splendido, una guida informata, amichevole, disponibile e molto onesta. Anche con Minh – come con molte altre guide incontrate girando il mondo – sono rimasta  amica, ci sentiamo spesso. A. gli fa il regalo di un libro di poesie, un bel gesto… . Viaggiando in nave ci godiamo un’altra prospettiva di Mekong, che ci fa vedere stabilimenti di diversi tipi e villaggi che sorgono sulle rive e ci fa incontrare le imbarcazioni cariche di merci di ogni tipo e genere, ricordandoci che il Vietnam di oggi rappresenta anche una grande potenza economica. Dopo un’oretta si arriva al confine vietnamita, dove scendiamo, consegnando i soldi per il visto e passaporti a un’assistente che ci aiuterà a ottenere i visti, che nel caso di ingresso fluviale costa non 30 ma 34US$

Per congedarsi da Vietnam vi voglio proporre la lettura di , un bellissimo romanzo d’amore: “Oltre ogni illusione” di scritrice vietnamita Duong Thu Huong, di cui opera è stata bandita nel Vietnam, unico ad essere   pubblicato  in patria, mentre tutto il resto è pubblicato solo all’estero.

 

APPENDICI: La stanchezza e fuso orario, tanti nomi “strani” creano confusione nelle nostre teste, quindi per orientarsi meglio tra varie vicende della storia vietnamita e cambogiana e per avere orientamento tra le foto che abbiamo fatto e che faremo nei prossimi giorni, ecco una “tabellina storica” che vi aiuterà a fare un po’ di ordine. Ho cercato di essere chiara e sintetica, ma non è un compito facile ridurre in poche righe la storia dei paesi con un passato così ricco e così complicato.

 

 

 

Aeroporto Singapore
Tempio Quan Tanh, Hanoi
Mausoleo di Ho Chi Minh, Hanoi
Baia di Halong
Baia di Halong, una delle numerose grotte
On the road …
Ponte Eiffel di notte, Hue
Ingresso alla Cittadella imperioale, Hue

Giardini del complesso della tomba dell’imperatore Tu Duc
Una delle numerose pagode nelle grotte della Montagna di marmo, Danang
Tempio Cao Dai
Ingreso in un tunnel, Cu Chi
Delta del Mekong
Delta del Mekong
Tramonto sulle risaie del Delta
Incredibile quantita dei motorini a Ho Chi Minh City
Tempio Chua ba Thien Hau, Ho Chi Minh City
Piazza del Parlamento con monumento allo Zio Ho

VERSO LALIBELA

Per incominciare, un augurio di tanti bei viaggi insieme!

Allora, iniziamo come nelle fiabe per il motivo che ci siamo recati in un paese dove la leggenda e il racconto orale ancora contano molto …

…. “C’era una volta un gruppo di amici avventurieri che in una primavera lontana decise di spostarsi nel cuore dell’Africa, per scoprire una delle più antiche civiltà della terra… In seguito, una uggiosa sera d’autunno dello stesso anno essi si imbarcarono nella pancia di un grande uccello metallico e partirono dalla cara vecchia Lombardia verso una terra grande, collocata nel cuore del continente nero. Il giorno dopo erano là; era una mattina piena di sole, ideale per cogliere il “fiore nuovo” che nell’antica lingua amhara si dice “addis ababa”. I nostri spavaldi cavalieri e le nostre ammirevoli dame, armati di curiosità e carichi di buona volontà si misero sulla strada. Erano intenti a scoprire i segreti della signora più vecchia della terra, Lucy; erano pronti a scalare le altissime vette e a percorrere strade sterrate per giungere ai magnifici castelli dei principi del regno di Gonder; erano decisi a calarsi nelle antiche chiese scavate dagli angeli nella roccia viva dal re Lalibela, “la cui sovranità è riconosciuta dalle api”; erano intenzionati ad attraversare fiumi pieni di feroci coccodrilli per far amicizia con bellissimi bimbi che ridono sempre e con fanciulle con gli occhi di gazzella… “      

GRUPPO AD AXUM

xx novembre, lunedì. Tutti i partecipanti si trovano all’aeroporto di Malpensa. Il volo è pienissimo, l’aereo è un po’ datato, lo scalo tecnico di Roma si allunga troppo …spicchiamo in volo, prendiamo la quota, cercando di dormire… Nonostante tutto, il mattino seguente atterriamo, stanchi ma contenti, all’aeroporto di Bole a Addis Ababa, a “soli” 2.360 metri d’altitudine, con oltre 3 milioni di abitanti e con 2 ore di fuso orario in più rispetto l’Italia … 4.  novembre, martedì. Dopo vari controlli, dopo il disbrigo di visti, dopo il levarsi e il mettersi le scarpe diverse volte, finalmente abbiamo preso i bagagli. Incontriamo Helen, nostra corrispondente locale, e Tesfa (che in amhara vuol dire speranza) che sarà la nostra guida durante tutto il tour. Ci imbarchiamo su due coasterbus (solo qui saremo divisi) e attraversiamo la capitale etiope Addis Ababa. Una città con i mendicanti, polvere e povertà da un lato e traffico caotico e ultramoderni grattacieli dall’altro, è una tipica metropoli africana. Una veloce colazione e un breve riposo nel nostro albergo BelleVue: nuovo, bello, pulitissimo, con personale gentile e disponibile. Peccato che alcuni di noi hanno avuto problemi con l’acqua troppo calda a causa degli impianti solari. Prima del pranzo visitiamo il Museo nazionale, uno dei più importanti musei mondiali, (nonostante poco lustro espositivo), per il fatto che conserva i resti del primo antenato dell’uomo: la celebre Lucy – Dinkinesh, vissuta 3,5 milioni di anni fa e scoperta tra le sabbie sassose della regione di Afar circa 40 anni fa. E’ emozionante stare di fronte a questa umile teca, davanti ai resti di questa piccolissima, giovanissima, pre-pre-pre-istorica “Eva” … Pranziamo nel ristorante “Louvre”, dove assaggiamo la cucina etiopico-francese, poi visitiamo la sua fornitissima cantina. Proseguiamo con le visite. Nella città si susseguono contrasti: lusso delle ambasciate vietate ai fotografi, poverissime abitazioni create con mezzi di fortuna, tanti lavori stradali in corso, scadenti negozietti affiancati da centri commerciali che man mano li divorano … L’itinerario ci porta a visitare le raccolte del Museo etnografico situato nel bel palazzo di Haile Selassiè, oggi parte dell’Università di Addis Abeba; in seguito saliamo l’Entoto, monte che sovrasta la città: qui incontriamo alcuni scolari in passeggiata e alcune vecchiette cariche di legna raccolta nel bosco. Siamo molto stanchi. L’ultima visita è alla Cattedrale della Santissima Trinità, che all’interno conserva le tombe granitiche del ultimo Negus Neghesti Haile Selassiè (nato come Tafari Makonnen) e della sua consorte Menen. Nel cortile della chiesa ci sono invece le tombe dei ministri assassinati dai combattenti del Derg nel 1974. Qui si incontra sempre una storia travagliata Per concludere la giornata una bella sorpresa: la nostra corrispondente Helen che è di religione cattolica ci invita a visitare la sua parrocchia di San Michele. Alcuni tornano in albergo, perché non hanno più forze; ma la maggioranza va verso la chiesa dove ci accolgono i giovani della parrocchia che in nostro onore cantano e suonano i tamburi kebero. Siamo senza luce perché l’energia elettrica si eroga secondo gli orari prestabiliti, non bastando per tutta l’enorme città. Diciamo una preghiera insieme e ci commuoviamo tutti. Finalmente arriva l’ora della cena, molto buona, che consumiamo un po’ di fretta perché non vediamo l’ora di andare a nanna. Anche domani ci aspetta una “levataccia”, perché bisogna essere presto all’aeroporto, per prendere il volo per la città di Bahir Dar.

LUCY, MUSEO NAZIONALE DI ADDIS ABABA

xx novembre, mercoledì. Sveglia è alle 5,30; il volo è alle 9,20. All’aeroporto i controlli sono numerosi, ma ammirando i magnifici paesaggi al bordo di un bel Bombardier Q200 che vola a bassa quota dimentichiamo noie di controlli e stanchezza dovuta a poco sonno: dopo un’ora siamo sulle sponde del lago Tana. Qui ci aspetta Makonnen, autista del pullman che sarà il nostro mezzo di trasporto fino ad Axum, e un pullmino che porterà i bagagli. Prima tappa sono le cascate di Nilo Azzuro, o Tissisat (l’acqua che fuma). Per arrivare alle cascate dobbiamo prendere delle barche; attraversando il Nilo la seconda barca ha un vis-a-vis con un coccodrillo. Ci incamminiamo per mezz’oretta su un terreno disseminato di rocce basaltiche, un po’ difficoltoso. Ci aiutano i ragazzi locali che per una piccola mancia danno una mano alle persone che camminano più lentamente: così G. e A. si godono la gita con un “accompagnatore personale”. Finalmente siamo di fronte alle cascate, alte da 37 a 45 m, che per fortuna si presentano con una bella portata d’acqua, nonostante che Tesfa racconta come il flusso e conseguente larghezza del fiume sono stati dimezzati dopo la costruzione di una diga per la centrale elettrica nel 2003. Tornando andiamo a mangiare nel ristorante Deset (vuol dire “isola”) sulle rive del lago: il luogo è davvero incantevole, nelle vicinanze c’è un stormo di pellicani, il cibo è a self service ed è servito in bei contenitori riscaldanti, e le pietanze, pur non troppo calde, sono ottime. Dopo il pranzo ci imbarchiamo su una nave per giungere alla penisola di Zeghe: attraversiamo il tranquillo lago, dieci volte più grande del lago di Garda, punteggiato da 37 isolotti, a volte attraversato da stracariche barchette costruite da piante di papiro, in amhara tankwa. Una volta giunti alla destinazione, attraversiamo un sentiero affiancato da lussureggiante vegetazione, composta in prevalenza dagli alberi di caffè e di mango. Dopo un quarto d’ora di cammino arriviamo al monastero di Ura Kidane Meheret, di semplice forma rotonda e con un portico coperto che cinge tutto l’edifico. E’ costruito in fango e paglia compressati, con caratteristico tetto conico ricoperto di paglia al cui centro di svetta una elaborata croce, con 9 uova di struzzo disposte attorno. Tutte le pareti sono tappezzate con le peli di capra dipinte con dei colori sgargianti, dalle tematiche che attingono alla ricca tradizione religiosa etiope, risalenti al XVI/XVII secolo. In seguito visitiamo la chiesa di Azwa Maryam, di costruzione similare alla prima, anch’essa splendidamente decorata. I monasteri del lago Tana, ancora abitati da monaci e monache (certamente separati) sono stati eretti qui a partire dal XI secolo: la tradizione narra che nel monastero di Tana Kirkos, era custodita L’Arca dell’Alleanza. Il monastero maschile è tuttora funzionante, con ingresso vietato alle donne. Ci sono anche bambini che si accingono alla vita monacale a cui regaliamo quaderni e matite: si mettono subito a scrivere, ringraziando con un gran sorriso. Torniamo alla nostra barca, perché in Africa il sole tramonta in fretta. Navigare con il sole che tramonta e poi sotto le stelle, senza inquinamento luminoso … è poco dire meraviglioso. E’ ora di andare in albergo. L’Abay Minch Lodge è composto di diversi bungalow costruiti in stile locale che imitano il tukul, capanne africane rotonde, ed è immerso in un rigoglioso giardino tropicale. Dentro le stanze troviamo un arredamento semplice nello stile locale, bagni con doccia calda e abbondante, tutto pulito. In ristorante mangiamo bene, sulla terrazza hanno acceso un bel fuoco, fa freschino … parliamo di quanto abbiamo visto, Pian piano tutti si ritirano nelle stanze mentre Tesfa ed io progettiamo cosa aggiungere al programma, già così pieno. Non ricordo tutte le aggiunte stabilite, le vedrò domani, sono anch’io come tutti quanti con gli occhi a mezz’asta.

CASCATE DI NILO AZZURO

xx novembre, giovedì. Da Bahir Dar, la capitale della regione Amhara la strada ci porta verso Gonder. La nostra prima fermata è presso un contadino che fa la trebbiatura del grano con i buoi: S. si mette subito ad aiutarlo. In un altro campo di teef (il cereale locale) un bambino sta nel mezzo facendo lo spaventapasseri vivente.  Un po’ dopo ci fermiamo per fare visita a una famiglia: per primo scende Tesfa per chiedere il permesso da capo di questo villaggio che si chiama Woreta, dopo di che una donna ci accoglie dentro la sua casa: la padrona di questa poverissima abitazione ci mostra le sue “medicine”, unici rimedi che aiutano nel caso del bisogno: sul muro è inchiodato un sgualcito quadro della Madonna con bambino; accanto, una quasi vuota scatola di aspirina. Regaliamo un po’ di cosettine che abbiamo a bordo: caramelle, penne, saponette e dentifrici. Alla fine, vista la situazione, aggiungiamo qualcosa in più: M. regala un paio di scarpe, A. una maglietta, io una borsetta … Attraversando la strada ci rechiamo nella scuola collocata in una capanna grande. Ospita tantissime bambine e bambini e due maestre: mentre irrompiamo nella loro “aula” ci osservano dapprima un po’ increduli, ma dopo un paio di minuti cominciano a ridere e alla fine cantiamo insieme, alcuni di noi seduti tra loro nei banchi. Siamo emozionati tutti, soprattutto la nostra “maestra” in pensione F. M. cerca di fare una foto con loro, ma non riesce perché prima che venga scattata i bimbi corrono dietro di lei per vedere cosa è uscito sul display della macchina fotografica. Infine attorno la scuola si costituisce una folla curiosa e festante, viene perfino a salutarci la direttrice facendo un discorso … anche se desideriamo rimanere qualche attimo di più, partiamo perché il pranzo ci aspetta a Gonder. Il ristorante Arat Ihii, gestito da quattro sorelle porta il nome che significa esattamente quattro sorelle. Dopo il pranzo ci offrono il caffè, preparato secondo il rito etiope: tostato, bollito e versato nelle piccole tazzine senza manico. E’ buono … non a caso, Etiopia è patria del caffé. Dopo il pranzo E. in un negozietto trova un bel vestito “griffato Amhara”, ricamato a mano con delle croci; suo marito si chiede quando lo indosserà? Prometto di comprarne uno anch’io e che andremo a prendere un aperitivo a Milano, vestite alla etiope… Subito dopo il pranzo, visitiamo il complesso dei castelli di Gonder, patrimonio UNESCO, risalente al XVII secolo. Si tratta del magnifico e splendidamente conservato resto di una delle antiche capitali. Gonder fu fondata nel 1665 dal re Fasilidas: visitiamo prima il suo castello con bel scalone esterno, poi quello di suo figlio Iyassu, in seguito il Palazzo di Dawit con sala per banchetti e le stalle.  Non manca nulla a questa reggia: c’è un archivio con la biblioteca, ci sono le gabbie per gli animali feroci, ci sono giardini… Concludiamo le visite con il palazzo di Qusqwam, appartenuto alla pia regina Mehtewab. Non a caso questo particolare complesso architettonico venne chiamato Kamelot africana: è edificato in uno stile che incrocia architettura coloniale portoghese con influenze axumite e arabe. I palazzi e giardini sembrano surreali, usciti da una fiaba; ma sono di pietra, solida e robusta, sopravvissuta a diverse intemperie della natura e della storia. In seguito visitiamo Debre Birham Selassié, (Chiesa della Ss. Trinità), una splendida chiesetta rettangolare della seconda metà del ‘600, conosciuta per le innumerevoli faccine di angeli che ornano il tetto della costruzione. Per ultimo ci rechiamo ai Bagni di re Fasilidas, un po’ distanti dal complesso dei castelli: l’ampia vasca rettangolare ingloba un piccolo e delizioso edificio, di forme armoniose e slanciate, probabile seconda residenza reale oppure solo un luogo rituale. Le radici dei ficus strangolatori avviluppano e sostengono sezioni delle mura in pietra che circondano il terreno dove sorgono la piscina con il palazzetto. Il complesso era ed è utilizzato per celebrazioni religiose, ed è frequentatissimo soprattutto in occasione del Timkat (Epifania): la piscina viene riempita dell’acqua proveniente da un fiume distante 500 km grazie ad un acquedotto, un vero miracolo ingegneristico che non si immagina esistesse nell’Africa del seicento. Funziona pressappoco così: un sacerdote benedice l’acqua e in seguito la folla, tutti vestiti di bianco, si immergono nelle acque santificate cantando e pregando, rievocando in tale modo il battesimo di Gesù nel Giordano. Alla fine della giornata siamo impolverati e stanchi, ma strafelici. Meno male che il nostro albergo Goha, anch’esso in stile africano, ci riserva una sorpresa positiva, con dei bei bagni e abbondante acqua calda. G. mi dice che aspettava alloggi peggiori mentre finora tutti gli alberghi sono molto belli e puliti. Sono contenta perché prima della partenza abbiamo avvisato il gruppo che bisogna adattarsi e che potremo trovare qualche disagio. Nel ristorante dell’albergo incontriamo un gruppo dei Norvegesi, in compagnia di una famosa cantante etiope, Itenesh Wassie, che ci regala un mini-concerto con la musica tradizionale. Alla fine della serata cantiamo Volare, con il coro guidato da Itenesh e composto di noi, i norvegesi e i camerieri…  con il canto vola anche la serata conclusasi con l’accensione di grande camino e con le chiacchiere fino oltre mezzanotte, alla faccia delle incomprensioni linguistiche e della stanchezza.         

UNO DEI CASTELLI DI GONDER

xx novembre, venerdì. Lasciamo Gonder e i suoi castelli. E’ una giornata di trasferta, però Tesfa ed io abbiamo combinato diversi interessanti “fuoriprogramma”. F. non sta tanto bene per la stanchezza e suo marito G. dimostra tutta la premura verso di lei, così che alla fine concludiamo che a volte conviene star male. La mattina ci riserva una sorpresa bellissima, cioè la visita al villaggio di Awra Amba – “città sopra il colle” che serba una storia affascinante e incoraggiante.   Il villaggio, speso precluso alle visite fu creato 40 anni fa da Zumra Nuru, un contadino visionario che da giovane iniziò ad interrogarsi sulle condizioni della vita umana: la parità dei sessi, l’abuso legato al potere, la disuguaglianza, la libertà religiosa. Non sapeva né leggere né scrivere, ma sapeva pensare e sognare: con diciannove persone che condividevano le sue idee fondò un villaggio che oggi ha circa cinquecento abitanti. Qui il lavoro è distribuito in base alle competenze, donna e salute materna sono protetti, il matrimonio sotto l’età di diciott’anni non è consentito, tutti, ragazzi e ragazze sono incoraggiati e sostenuti ad andare a scuola. Le decisioni, il lavoro e il profitto sono distribuiti equamente. Zumra e i suoi amici sono stati spesso oggetto di attacchi da parte dei villaggi vicini, governatori locali e stato. A causa delle sue idee sono finiti anche in prigione. Ma con tanta perseveranza, grazie alla solidarietà e ai sani principi, hanno vinto la siccità, le carestie, le ostilità politiche. Oggi stanno portando avanti una fiorente comunità autosufficiente, che non ha voluto modernità ad ogni costo. Il villaggio infatti non ha abbandonato i valori positivi della tradizione contadina. Lo testimoniano le persone che incontriamo, i pozzi d’acqua, la piccola scuola con biblioteca, la tessitura dove lavorano le donne (in Etiopia un lavoro tradizionalmente riservato agli uomini), il ricovero per persone anziane, i mulini comuni… Tutti siamo commossi ascoltando le loro storie e vedendo il miracolo che sono riusciti a creare. Dobbiamo lasciare anche loro. Proseguiamo attraversando paesaggi mozzafiato. Lungo le strade cammina la gente, a volte con bestiame, e le macchine che incontriamo sono pochissime, si potrebbero contare sulle dita di una mano. Ci fermiamo diverse volte per ammirare il paesaggio che ci circonda. Viaggiamo ad una quota di 3000 metri s.l.m., ma non sentiamo la mancanza di ossigeno dovuta all’altitudine. Prima sosta è vicino a un villaggio, dove incontriamo alcuni ragazzi che tagliano gli alberi e che vogliono fotografarsi con noi.  Seconda sosta è su un prato che apre verso le vette che circondano la città sacra di Lalibela, dove da nulla spuntano fuori una ventina dei bambini, anch’essi volonterosi a fotografarsi. R. commenta la povertà della gente, dicendo che per lui è molto difficile non dargli niente, e per quello è sempre circondato dai bambini che chiedono qualcosa. Tesfa invece cerca di mettere tutti in fila, così ognuno riceve qualcosa. E’ giusto così… Prima di giungere a Lalibela, ci sono un paio di ore di strada sterrata. Il nostro autista Makonnen, bravissimo a guidare, ci ha fatto cambiare opinione sulla guida “africana” poco affidabile. Quando arriviamo a “città santa” della cristianità etiope e già calata la notte. La hall e la sala da pranzo dell’albergo Lal sono abbastanza ben tenute, ma le stanze, ampie e abbastanza pulite dimostrano la non-manutenzione tipica per Africa. Nei bagni c’è acqua calda però il resto lascia desiderare … una piastrella è di un tipo, l’altra di un altro, la rubinetteria ha la maniglia di un tipo per l’acqua calda e di un altro per la fredda. Aggiungo che si tratta del miglior albergo di Lalibela, un piccolo paese sperduto tra le montagne che con le sue undici incredibili chiese, patrimonio UNESCO  è sicuramente l’attrazione principale dell’Etiopia. Bisogna ammettere che tutti sono gentilissimi e molto disponibili, ma gli standard sono lontani da ciò che “il miglior albergo” dovrebbe offrire.                                                                                     

xx. novembre, sabato. Subito al mattino iniziamo con il Museo di Lalibela, dove ammiriamo alcuni reperti legati alla cultura religiosa: i libri e i rotoli timt’m scritti in antica sacra lingua ge’ez, cesti di comunione birket, tamburi kebero, ombreli zantela. Questa piccola cittadina con meno di 15000 abitanti è chiamata Gerusalemme d’Africa per le sue 11 straordinarie chiese, avvolte nel mistero e “scolpite” interamente nella roccia da re Lalibela, di dinastia Zagwe, che regnò dal 1119  al 1149. Come, con quale tecnica costruttiva, perché in questo modo, come mai qui, nel cuore del continente nero dove oggi si vive ancora nelle cappane … sono le domande che si pongono da sole quando da sopra cominciamo a scendere nella prima chiesa dedicata a S. Redentore, Bet Medhame Alem. B. e A. fanno le foto da sposini sull’ingresso della chiesa … è il loro anniversario del matrimonio. La chiesa del S. Redentore è la più alta e la più grande che esista al mondo realizzata utilizzando una sola pietra; vicino a lei ci sono Bet Maryam, (S. Maria) sul cui sagrato si apre Bet Meskel (S. Croce) e Bet Danaghel (Ss. Vergini Martiri).  Sono tutte appartenenti al così detto primo gruppo, quello a nord del fiume Giordano. Ammiriamo anche Bet Debre Sina e Bet Golgotha, interdetta alle donne. Quest’ultima contiene la Cappella Sellassié, (della Trinità) luogo più sacro accessibile solo all’imperatore, sorvegliato da monaci guardiani: essa secondo la legenda contiene la Tomba di Adamo, la Tomba di Cristo e la Tomba del re Lalibela.  Poi c’è il turno della un po’ distante Bet Giorgis dedicata a San Giorgio, a forma di croce, la più conosciuta e la più fotografata del sito. Una è più sorprendente dall’altra… Aver finito con la visita alla chiesa di San Giorgio, di cui si dice che fu costruita sotto la direzione degli angeli in una notte sola, la maggior parte del gruppo si butta in un’avventura di tipo diverso. Si va al mercato, che è uno dei più grandi della zona: è un’emozione unica, composta da colori, odori, versi degli animali in vendita e strilli dei loro venditori che espongono le sue mercanzie agricole nei cesti oppure stese su variopinti tessuti per terra… I due gruppi delle chiese (bet = casa, chiesa, luogo sacro) sono divise da un canale artificiale, “il fiume Giordano”, e collegate tra di loro da diversi cunicoli. Dopo il pranzo nella terrazza del ex-albergo 7 ulivi di cui si gode un panorama mozzafiato ci accingiamo a visitare il gruppo sud, composto da Bet Amanuel, Bet Merkorios, Bet Abba Libanos e Bet Gabrie-Rufa’el. Lungo il percorso proviamo anche il brivido di attraversare un cunicolo che collega due chiese: qualche centinaio di metri al buio completo, uno dietro l’altro, curvi, in fila indiana e senza fiatare… Quando usciamo, A. mi abbraccia in lacrime e ringraziando, era perplessa se venire o no, felicissima per aver visto questo luogo incredibile, e anche V.,  ingegnere edile confessa che non credeva che queste costruzioni sono davvero così come sono: imponenti, senza errori, interamente scavate nella roccia monolitica, riscavata per creare spazi interni con colonne, altari, archi… Tornando verso l’albergo, lungo la strada incontriamo un monaco che dipinge sulla pelle conciata come facevano i suoi nonni e bisnonni: Madonne, angeli, santi. Facciamo qualche acquisto… Durante la giornata abbiamo scattato una miriade di foto: R. e sua moglie A. prediligevano l’architettura, M. & M. cercavano i volti, don F. riprendeva i soggetti “naturalistici”, ciascuno creando ricordi a modo suo. Alla sera, ormai abituati alla stanchezza rimaniamo svegli a lungo, ammirando il cielo che qui sembra più vicino…

BET GYORGIS, LALIBELA

xx novembre, domenica. Nessuno di noi ha dormito tanto bene, ci svegliavano i monaci che cantavano e suonavano tamburi tutta la notte in preparazione delle celebrazioni domenicali. Nella città santa di Lalibela la notte tra sabato e domenica è molto particolare: è una veglia per tutti, non solo per  i preti; molta gente cammina per decine e decine di chilometri tutta la notte, per essere nella città all’alba, le donne con dei veli bianchi e con bimbi in braccio, gli uomini con i propri bastoni. Al sorgere del sole sono tutti presenti per partecipare la solenne Messa etiope, una cerimonia lunga e molto sentita, basata su un credo ingenuo e ricca di riti che si perpetuano da due mila anni. Dobbiamo lasciare Lalibela e le sue meraviglie: oggi bisogna arrivare a Makallé. Prima cosa che cerchiamo è un posto “tranquillo” con dei “sassi adatti”, per accogliere la celebrazione della nostra S. Messa. Troviamo un luogo ideale, villaggio si chiama Gashena e anche qui i capi villaggio ci danno il permesso dietro la richiesta di Tesfa: c’è un prato con dei sassi e con un paio di alberi. Prepariamo la Mensa, ci disponiamo attorno, prima noi, poi arrivano i pastorelli locali, le mucche, gli asini, le pecorelle… E’ una S. Messa collocata nel Presepio vivente che si è creato da sè. Ci porta ai tempi di Gesù, il cielo è limpido, c’è il vento, fa freddo… Siamo commossi tutti quanti. Don F. ricorda T. che ci ha lasciato da poco. T. era iscritto nel viaggio, desiderava tanto visitare l’Etiopia e lo sentiamo qui con noi, vicino alla sua moglie A., vicino a suo figlio e nuora, vicino a tutti noi e alle bellezze di questa magnifica terra. Abbiamo sentito tutti che l’Etiopia è bella, ma non riuscivamo a credere che è bella fino a farci piangere. (il video è disponibile sul nostro canale YouTube) Arriviamo nel punto più alto dell’nostro viaggio  attraversando il passo Dilb a 3750 m s.l.m. Qui il fiato manca ma il paesaggio è come sempre appagante… Pian piano scendiamo, attraversando il fiume Saka, ora completamente secco e siamo nella regione dell’etnia Raya, noti come un popolo vanitoso e fiero, prevalentemente di religione islamica. Pranziamo nel ristorante Woldia. Il paesaggio è sempre più desertico, ci accompagnano accacie, euphorbie e velenose procere. Facciamo una sosta presso un villaggio dove si tiene il mercato dei dromedari. Tesfa prudentemente consiglia di non avvicinarsi per non rischiare che ci chiedono i soldi per le foto, ma i più coraggiosi (quindi E., S. ed io) non ubbidiscono avvicinandosi e cercando di parlare con i cammellieri e i mercanti. Facciamo le foto, ridiamo insieme, regaliamo delle matite e quaderni ai bambini…ci invitano perfino a salire sui cammelli, senza nessun compenso. Proseguiamo, qui il buio scende velocemente e di regola bisogna essere alla destinazione prima del buio. Con tutti i nostri “extra” è impossibile. Alla nostra destra inizia la depressione di Dancalia, mentre noi proseguiamo verso il Tigray, Tigré di cui Makallé è capitale. Nella regione di Tigray nel ottocento furono attivi diversi presidi Italiani, non tanto amati dai locali. Il primo ad arrendersi ai ras tigrini fu Amba Alagi, nel dicembre del 1895. All’inizio del 1896 al comando del forte di Makallé fu posto il maggiore Giuseppe Galliano, che cercò invano rinforzi da Roma; in seguito il 21 gennaio si arrese ai 60.000 etiopi comandati da ras Makonnen, padre del futuro imperatore d’Etiopia Haile Sallassié, secondo credenza discendente di re biblico Salomone. La sconfitta definitiva fu presso Adua, nei primi giorni di marzo del 1896, quando Negus Menelik con la sposa Taytu e diversi altri ras (compreso Makonnen) annientarono il mal organizzato esercito italiano. Tra le montagne di Adua ci passeremo domani… L’albergo Planet è molto buono, dopo il “Lal” di Lalibela ci godiamo il lusso dell’arredo orientaleggiante, di gusto esuberante ed esagerato…

xx novembre, lunedì. Siamo di nuovo in viaggio, dopo un breve giro panoramico lasciamo Makallé, città moderna e centro universitario e governativo di Tigray… La prima visita, dopo 15 km di strada sterrata, è alla chiesa di Abraha e Atsbaha, una delle più antiche, fondata dal primo vescovo etiope Frumenzio che convertì re Ezana. Tesfa ci racconta la storia dei due re gemelli, Ezana e Seizana, spiegando le immagini sacre che coprono interamente i muri della chiesa, e alla fine chiede al monaco di mostrarci l’antica croce forgiata in una lega d’oro e rame appartenuta al re Ezana che si conserva in questa minuscola chiesa rupestre, un posto senza allarme e senza sale espositive. Dalla porta accanto esce il prete, con ombrellino variopinto sotto di cui c’è una magnifica croce. Proseguiamo. Attorno a noi il deserto si fa sempre più deserto, e tra la scarsa vegetazione scorgiamo le piante di mirra. Lungo la strada incontriamo il villaggio Negash, il primo in Etiopia a convertirsi al islam, ancora ai tempi del profeta Maometto. Vediamo i ragazzi che vano alla o tornano dalla scuola che si svolge in due turni, macinando chilometri e chilometri. Non sorprende che gli etiopi siano degli ottimi maratoneti, con stile di vita “a piedi” e l’altitudine a cui si trovano, si allenano tutti quanti ogni giorno. QqAttorno Makallé si cominciano a vedere anche le bici. Per pranzo ci fermiamo ad Adigrat, in un bellissimo ristorantino arredato in stile tigrino, che porta il marchio “cultural site”. Quando entriamo, i servizi igienici non sono all’altezza e chiediamo di sistemarli. Una volta passato l’impatto negativo mangiamo molto bene, serviti in stile “tigrino” sui tavoli su cui brucia la profumatissima mirra.  Alla fine ci preparano un buon caffè e noi perdoniamo i servizi che nel frattempo sono stati puliti con massima cura. Raccomando al nostro Tesfa di “intervenire” presso le autorità per i turisti futuri. Qui incontriamo le donne con delle croci tatuate sulla fronte che spesso portano i bambini avvolti nel grande fazzoletto fisato sulla schiena, alcune sono nonne, altre madri o sorelle, tutte magre e … bellissime. Andiamo a visitare una delle probabili capitali della biblica regina di Saba, che per gli etiopi porta il nome Makeda e per arabi Bilquis. Yeha, la città del periodo preaxumitico o sabeano ci accoglie con rovine del Grande tempio della luna. Gli archeologi tedeschi scavano in questa località da oltre cento anni, purtroppo solo quando le vicende politiche lo hanno permesso, cercando di completare una pagina di storia conosciuta solo attraverso leggende. Attraversiamo le montagne, maestose e quasi minacciose che circondano Adua, luogo dove sono caduti 100.000 giovani italiani. Ci fermiamo presso il monumento a rendere omaggio. Una modesta croce di pietra dentro un piccolo recinto pieno di spazzatura al bordo della strada principale reca la scritta: “Non abbiamo dimenticato 1896. Vergognoso. Raccogliamo la spazzatura, diciamo una preghiera, con promessa che faremo presente la cosa all’Ambasciata italiana in Etiopia. (Appena tornati infatti ho scritto una e-mail all’ambasciatore in nome di tutti noi, che ha risposto dicendo che non si può far nulla.). Sono le sette passate ed è già notte fonda. Con le strade non illuminate bene e lavori in corso, nostro pullman prende un sasso che amaca il paraurti e la carrozzeria. Siamo come al solito qualche ora in ritardo: siamo ad Axum, la città delle steli. Dopo cena ci troviamo tutti nella hall, e tentiamo a telefonare a casa.  WhatsApp non funziona ma il mio Skype sì, facciamo i turni e riusciamo a parlare con l’Italia quasi tutti… Poi, a nanna.

CHIESA RUPESTRE DI ABRAHA ED ATSBAHA, TIGRAY

xx novembre, martedì. Sembra incredibile: Axum è la nostra ultima tapa, prima di prendere il volo per Addis, e poi tornare a casa. Il tempo si è smaterializzato su questi altipiani magici. Al mattino andiamo a visitare il Parco settentrionale di steli, un altro sito etiope censito come patrimonio dell’umanità UNESCO. Si tratta degli obelischi dell’epoca axumita (I – IV sec.), in pietra basaltica, alti tra 20 e 33 m, a sezione quadrata, la cui superficie è suddivisa in diverse sezioni e decorata con dei simboli. La più alta, di 33 m, sembra fosse crollata al suolo durante la costruzione, mentre quella di maggiore altezza ancora in piedi è la Stele di Re Ezana, alta 24 m. Dal 1937 fino al 2008 la così detta “Stele di Axum” si trovava a Roma: fu restituita nel 2009, e la troviamo qui, sostenuta da tiranti in acciaio perché pesa oltre 150.000 kg. Si pensa che le steli siano state erette in corrispondenza alle tombe. Gli scavi che riusciamo a vedere da vicino e le successive ricerche, ancora in corso, saranno a confermare quest’ipotesi. In seguito visitiamo il museo, dove la maggior parte di noi ordina delle belle croci in pietra nera con il nome inciso con le lettere in alfabeto sillabico amhara. Segue la visita  alla piscina detta della regina di Saba, forse una riserva d’acqua axumita, poi un tukul con l’enorme “Pietra di re Ezana”, un importante documento inciso  in tre lingue: in sabeo, ge’ez e greco.  Qui ad Axum ci assediano i venditori di tutti i tipi. Alcuni vendono le pietre preziose, soprattutto opali, fossili e geodi, altri icone e croci, altri ancora le spezie, i foulard,  l’argento. Vicino al nostro ristorante troviamo un negozietto con delle cose carine e con buoni prezzi. Facciamo “affari di gruppo”: molti trovano le cose davvero deliziose: piccole icone, croci dipinte, “i retablo etiopi”, croci in argento, … Dopo il pranzo prosegui amo per visitare i resti di un grandioso palazzo di 3000 metri quadri. Tesfa racconta che si tratta del sito denominato “il palazzo della regina di Saba”, ma che l’attribuzione del sito al tempo della regina è tutto da confermare: per ora è una trovata dalle guide locali, non priva di un pizzico di verità. Infatti, le rovine di un palazzo databile al X sec. a. C. sono state trovate sotto i ruderi del palazzo di un re cristiano de V/VI sec, quello che si vede. Le prove non ci sono, anche perché si tratta dalle scoperte recentissime, di 2008. Nelle vicinanze si trova un altro Campo di steli della regina Gudit. Per concludere la giornata facciamo visita alla chiesa di Santa Maria di Sion, il luogo più sacro dell’Etiopia che custodisce secondo la credenza etiope l’Arca dell’Alleanza. Il primo edificio fu costruito nel 1665 da re Fasilidas sulle basi di una chiesa più antica (IV-VI sec), invece la nuova chiesa è recente, costruita dall’imperatore Haile Selassie. Visitiamo anche un ricco museo di arte sacra, con corone, oggetti liturgici, manoscritti antichi, dove non è possibile fare le foto. Infine si visita il recinto sacro della vecchia chiesa dove solo gli uomini possono entrare, mentre noi donne aspettiamo fuori… chiacchieriamo e facciamo foto con le donne etiopi. L’Arca con le Tavole della legge si trova davvero qui? L’Etiopia custodisce mille segreti ancora non rivelati. Alla fine rientriamo in albergo; durante la cena il ragazzo ci porta le nostre “croci di Axum” con i nomi incisi in amhara. Purtroppo, due nomi sono sbagliati …

xx novembre, mercoledì. Ci alziamo presto per prendere il volo per Addis Ababa. Stiamo aspettando che il ragazzo porti le croci con nomi sbagliati, e in quei 5 minuti un altro ragazzo riesce venderci dei sacchettini con la mirra: ne compriamo davvero tanti, così che tutto il pullman profuma.  Salutiamo nostro bravissimo autista e anche autista del pullmino: abbiamo raccolto un po’ di soldi in più per coprire le spese della riparazione del paraurti rotto per colpa dei nostri innumerevoli “extra”. Bravissimi, hanno fatto molto per noi, facendo arrivare noi e bagagli sempre alla destinazione, sodisfando tutti i nostri desideri di fermate e visite non in programma. Tesfa invece sarà con noi fino all’imbarco per Milano. Aspettiamo all’aeroporto e facciamo gli ultimi acquisti: sciarpe, qualche cartolina, qualche maglietta. Io finalmente trovo un bel abito ricamato tipico della regione di Tigray: lo compro e lo indosso subito. Una ragazza ci prepara il caffè e ci offre popcorn. Voliamo fino Addis con un bombardier, sempre a quota bassa ammirando di nuovo i magnifici paesaggi montuosi. Arrivati a destinazione ci aspettano due costerbus e il gruppo si divide. Prima andiamo a pranzo al ristorante del circolo sportivo Juventus, tenuto da una signora di origini italo-etiopi. Mangiamo ottimo cibo alla card e all’italiana… Facciamo le ultime visite: andiamo a prendere caffè per portarlo a casa e poi facciamo il giro del vicino “Merkato”, un grande mercato con le bancarelle. Per finire le visite in bellezza, Tesfa ci porta alla St. Georges gallery, un negozio di classe con mobili di antiquariato, dipinti antichi (e nuovi), gioielli etnici di buona fattura. E’ carissimo, ma vende oggetti di alto livello ed esposti bene. Dopo lunghe consultazioni con tutti L. “investe” in un bel quadro, R. e A. prendono dei bellissimi cuscini, io un monile. Dovevamo avere le stanze in day-use, ma solo in pochi riusciamo ad utilizzare questo servizio, pensato bene ed offertoci dal nostro corrispondente. C’è un matrimonio e non si può fare niente per ottenerle per tutti, oltre ad arrangiarsi e fare i turni. Devo fare complimenti a tutti quanti che hanno dimostrato di essere non turisti ma viaggiatori: non tutti i gruppi affrontano qualche inconveniente con spirito di adattamento, che è un requisito fondamentale quando si viaggia, necessario per non rovinarsi la vacanza, indispensabile per vedere e capire il mondo. Concludiamo il nostro tour con la cena di arrivederci, con spettacolo di danze tradizionali. E’ venuta a salutarci la corrispondente Helen, omaggiando un foulard alle signore e una ciotola in ceramica ai signori. Tutti siamo entusiasti della bravura delle ballerine e ballerini che si esibiscono. Finito tutto, prendiamo i nostri coasterbus e andiamo all’aeroporto. Salutiamo la nostra bravissima guida Tesfa, contenti di ciò che abbiamo visto e sentito, ringraziandolo per la sua disponibilità e cortesia.

E’ arrivato l’ultimissimo momento del nostro viaggio: superare vari controlli. Purtroppo ci riservano anche una brutta sorpresa per la coppia M.&M. La polizia sequestra la splendida ametista che hanno comperato, spiegando che la legge etiope vieta esportazione dei minerali, pietre e terra senza un permesso speciale del ministero. Provo ad intervenire: il risultato è quello che mi fanno vedere un stanzino pieno zeppo di pietre, fossili e sacchetti di terra sequestrati. La rabbia non serve, con la burocrazia puoi fare solo peggio se sei scortese. Infine siamo in volo, anche questo strapieno. L’aereo è nuovo, le hostes sono cortesi e ci danno subito da mangiare permettendoci di chiudere gli occhi almeno per un po’. La prima fermata è a Roma … ed è già giovedì.

xx novembre, giovedì. Siamo a casa, a Malpensa… cielo color grigiomilano. Valigie, saluti, promesse per il prossimo viaggio… Il pullman aspetta, alcuni vanno subito al lavoro, altri magari si godranno qualche ora di sonno. I giorni passati sembrano un sogno.