1 giorno, partenza da Milano. Alle 20.30 ci troviamo nell’area gruppi del terminal 1 di aeroporto di Malpensa. Partiamo due ore dopo con l’Uzbekistan Airlines. Il volo è tranquillo, c’è chi riesce dormire un po’, c’è chi chiacchiera e chi legge la bella guida che abbiamo omaggiato a tutti i partecipanti. A.S. (significa ante scriptum) Appena incontrerò la guida spiegherò che il nostro gruppo è un gruppo davvero speciale, molto curioso, desideroso di fare qualche visita extra, e quindi ripeterò quello che ho già scritto al nostro corrispondente … di farci fare tutto ciò che contraddistingue un vero viaggiatore da un semplice turista. Infatti, ciò che desideriamo in tutti i nostri viaggi è di essere quanto più possibile viaggiatori, e quanto meno turisti di massa.
2. giorno, Khiva: Itchan Kala. Di buon mattino atterriamo all‘aeroporto di Urgench, una città moderna di 150.000 abitanti, edificata in stile sovietico, costruita dando fine a Kunya-Urgench, detta “Vecchia Urgench” o “Gurgench”, patrimonio UNESCO oggi è una piccola città in Turkmenistan che custodisce rovine medievali di una città molto importante, dal 1077 al 1210 la capitale della Corasmia, con le origini probabilmente ancora più antiche che si collocano al quarto secolo prima del Cristo, nell’epoca achemenide. La loro storia è una storia che racconta i destini nel deserto: città di Konya Urgench fu rasa al suolo da Gengis Khan nel 1221 e in seguito riedificata e poi di nuovo distrutta da Tamerlano nel 1370 per essere ricostruita di nuovo. Non erano i potentissimi conquistatori a distruggerla, ma un fatto semplice: la mancanza dell’acqua. Dopo il cambio del corso del fiume Amu Darya nel XVI secolo la città fu traslocata a odierna nuova Urgench. L’acqua e la vita, e sopratutto nel deserto ci si rende conto in modo immediato e efficace. La storia di due città dello stesso nome fa riflettere sulla natura, sui cambiamenti climatici e sopratutto sui limiti del potere umano.
All’aeroporto siamo accolti dalla nostra guida Hurshid e due bravissimi autisti, Rashid e Erkin, dai denti d’oro, un segno distintivo di molti uzbeki. Dopo gli accurati controlli dei passaporti di ognuno in relazione al visto collettivo, ci trasferiamo verso la città di Khiva che dista 30 km da Urgench e che è la nostra prima tappa sulla Via della seta. Siamo pieni di stupore davanti le sue imponenti mura in adobe, ovvero di fango cotto al sole. Uno spettacolo che afferma che la creatività umana riesce ovunque e anche con pochi mezzi a disposizione far nascere il bello, anche nel cuore di deserto. Siamo contentissimi quando ci accorgiamo che il nostro albergo della catena “Asia” è situato a pochi metri da esse, in prossimità di una delle porte della città, Ota darwoza di Itchan Kala.
Raggiungiamo le nostre stanze, ampie e pulite, e ci ricarichiamo con una buona e abbondante colazione. Decidiamo di iniziare subito le visite partendo nelle prime ore del mattino, prima che il sole diventi troppo alto e caldo, rimandando il riposo per le ore più calde. Ci incamminiamo a piedi, e superando la vicinissima porta Ota darwoza, entriamo nella fiaba. Siamo dentro le mura e le meraviglie – impossibile elencarle tutte – si rivelano una dopo l’altra in tutta la loro bellezza. Itchan Kala, la fortezza interna o città vecchia, patrimonio UNESCO contiene oltre 50 monumenti storici e 250 vecchie abitazioni, per la maggior parte risalenti dal XVIII al XIX secolo.
La caratteristica più spettacolare dell’Itchan Kala sono le sue mura in mattoni e dalle quattro porte (Tosh Darwoza, porta sud; Ota Darwoza, porta ovest; Palvan Darwoza, porta est e Bogcha Darwoza, porta nord) situate sui lati della fortezza rettangolare di cca 500 x 800 m. Le fondamenta delle mura risalgono al decimo secolo, ma le mura odierne, di circa 10 metri d’altezza, vennero erette nel tardo XVII secolo, ed in seguito restaurate. Racchiudono diverse storiche madrase (scuole coraniche) tra cui Madrasa Allakuli Khan, Madrasa Mohammed Amin Khan, Madrasa Arab Mohammed Khan e Madrasa Mohammed Rahim Khan; importanti mausolei di personaggi legati alla città come Sayid Alauddin e Pahlavon Mahmud; i palazzi e fortezze tra cui il Tosh-hovli, Narallabay e Kuhna Ark; le Moschee Juma e Ak, e infine i famosi minareti Islam Hodja e Kalta Minar. Il complesso della Madrasa di gran visir Islom Hodja risale ai primi decenni del XX secolo. Sono i maestri artigiani del villaggio di Madir Bolt, Vaïzov e Madaminov che hanno creato le stupende piastrelle, soprattutto nella nicchia del mihrab. Oggi l’edificio ospita il Museo di Arti Applicate di Khiv, con l’omonimo minareto. Alcuni di noi salgono in cima al minareto, che ha la fisionomia di un faro e, con i suoi 57 metri, è il più alto della cittadina: le scale sono anguste, con gradini molto alti e irregolari. Il termine minareto che significa torre è usato in tutto il mondo per indicare torri dalle quali il muezzin richiama alla preghiera. Ma la storia dell’architettura ci dice che furono probabilmente le torri di vedetta e di segnalazione diffuse in epoca preislamica nelle regioni desertiche dell’Asia ad essere le sue antenate: il compito è simile, annunciare una cosa importante. Il Mausoleo di Pahlavon Mahmud è del 1362, ed è dedicato al poeta, filosofo e combattente che in seguito fu scelto come il santo patrono della città. Il minareto Kalta Minarovvero “il corto” fu voluto dal khan Mohammed Amin. Desiderava farlo così alto da poter essere visto anche dalla Bukhara, lontana 450 chilometri. Khan morì nel 1855, lasciandolo incompiuto, a circa un terzo della sua altezza. Suo figlio ebbe intenzione a terminarlo, ma i consiglieri lo dissuadessero, dicendo che, se intende a far questo, tutti si sarebbero ricordati di suo padre, ma nessuno di lui. Allora il nuovo khan decise di lasciarlo incompiuto … in ogni caso, il ricordo del Khan Mohammed Amin rimase. Dopo aver pranzato presso il ristorante Bir Gumbaz ci concediamo un breve riposo in hotel. Era una saggia decisione perché fuori si sente il caldo. Ci aspetta l’antica e elegante Juma, Moschea del venerdì costruita a partire dell’VIII secolo, poi ricostruita nel 1788 con le 218 colonne lignee, magnificamente intagliate di cui le più antiche risalgono alla prima costruzione. Il Palazzo Tosh – Howli, il cui nome significa casa di pietra fu costruito tra il 1830 e il 1841 dal sovrano del khanato di Khiva Alla Kuli Khan,: conta oltre 270 stanze affacciate su tre cortili: Ichrat Khauli, corte della rappresentanza, Arz Khauli, dedicato alla giustizia e il corte del harem. Ma giustizia spesso confinava con crudeltà estrema: il suo primo architetto, Nourmouhamad Tadjikhan, fu impalato per aver dichiarato di essere impossibilitato nel completare la costruzione del palazzo in due anni. Certamente, alterniamo le visite con qualche compera in giro: dove se non qui, sulla via della seta, un luogo che da secoli era sinonimo di mercanteggiare, venere e comprare. La grande Via della Seta ha avuto un’influenza speciale, promuovendo non solo trasferimento di beni, ma anche di tecnologie, lingue, idee… Come in tutti i luoghi turistici ci sono bancarelle che vendono un po’ di tutto, ma ci sono anche negozi di artigianato locale, specializati in diverse discipline tradizionali. C’è chi fa colbacchi in lana e pelliccia di pecora, ci sono laboratori di falegnami e di intagliatori, dove lavorano anche giovanissimi ragazzi; ci sono orefici e argentieri che creano splendidi gioielli per i quali Khiva è rinomata. Purtroppo nel passato Khiva fu famosa anche per un commercio non tanto piacevole da ricordare: dal XVI al XIX secolo, fu il mercato principale per la tratta degli schiavi di tutta l’Asia Centrale. Abbiamo scelto di rillassarsi un po’, assistendo due spettacoli: il primo è di danze tradizionali, il secondo invece un’esibizione di acrobati-equilibristi. Soprattutto ci emozionano i bambini che prendono parte del gruppo degli incredibilmente bravi equilibristi. La guida ci spiega che per arrivare a questi livelli bisogna iniziare da piccoli, anzi piccolissimo. A volte guardando la loro esibizione sembra di esserci nel sogno, dove tutto diventa possibile e lieve, anche volare allargando le bracia. Proseguiamo, visitando Kukhana Ark, fortezza dentro la fortezza, la residenza dei sovrani di Khiva, eretta nel XII secolo da Ok Shih Bobo. Essendo una sede reale era munita di tutto il necessario come l’harem, la zecca, le scuderie, l’arsenale, la moschea e la prigione. Saliamo sul bastione Ak Cheikh Bobo, ovvero dello sceicco bianco, l’edificio più antico di Khiva da cui si gode una stupenda veduta della città. Di nuovo siamo tutti affascinati dalla altra prospettiva sulle splendide mura di fango che si snodano tra i bastioni sovrastando le porte e abbracciando il cuore antico della città.
Dopo la cena, nonostante la stanchezza, usciamo di nuovo per una passeggiata notturna: alcuni abitanti di Khiva dormono davanti alle porte per sfuggire il caldo delle abitazioni. Usciamo da Itchan Kala e ci fermiamo appena fuori le mura a rendere omaggio ad Muhammad Ibn Musa al-Khwarizmi,matematico, astronomo e geografo nato in questa regione nella seconda metà del VIII secolo. Egli compose un trattato fondamentale sull’algebra, introdusse la cifra 0 nei calcoli e prestò il proprio nome all’algoritmo: il vocabolo non è infatti che la latinizzazione di al-Khwarizmi. La luce pubblica è quasi assente a Khiva, ma a illuminarci la strada ci pensa la magnifica mezza luna che ci osserva dall’alto. Accompagnata dal silenzio del deserto entriamo silenziosi anche noi (una cosa insolita per noi italiani) nelle nostre stanze,
Khiva si trova in un’oasi culturale e naturale nel nord-ovest dell’attuale Uzbekistan. Il nome della regione Khorasam che viene tradotto come “la terra del Sole” fu menzionato per prima volta come “Hvairize” in Avesta, antico libro sacro indiano, scritto da Zarathustra. Il figlio del biblico profeta Noè, Shem si considera il leggendario fondatore. Quando si trovarono in queste parti siccitose e caldissime, Noè e suo figlio decisero di aiutare la gente regalandole l’acqua. Un colpo di bordone del vecchio aprì un pozzo con acqua limpida e fresca. Noé lo fece assaggiare e suo figlio che esclamò “Khei-va!” che vuol dire “è dolce ed è gustosa” dando così il nome alla città. Si narra che il luogo è quello dove oggi c’è il pozzo nel cortile dell’antica fortezza Kunya Ark. Tuttavia, la città cominciò ad essere menzionata a partire dal X secolo, diventando importante non solo per il commercio, ma anche come un centro culturale e scientifico dove oltre all’indispensabile acqua si potevano trovare i beni spirituali e tutte le merci desiderabili. Il matematico al-Khwarizmi fondò una prestigiosa scuola nella sua regione natia nel IX secolo, nel 996 fu creata l’accademia di Mamun ibn Maometto, dove hanno vissuto e lavorato i più grandi scienziati dell’antico Oriente: Al Beruni e Abu Ali Ibn Sina (Avicenna). Il medio oriente nella fantasia comune spesso si incarna nella immagine della donna orientale, misteriosa, raffinata e saggia, il cui simbolo “una per tutte” è Shahrizad, il cui nome significa (nata) libera nella città. Alcuni collocano la nascita della bella principessa proprio nella città di Khiva. Come è noto a tutti, è immortalata nella raccolta delle storie persiane e arabe, ma anche di tutti gli altri popoli di questi territori unite in uno dei più famosi libri di tutti i tempi, “Mille e una notte” dove la principessa, una delle donne che appartenevano al harem reale, per salvarsi dalla morte, iniziò a raccontare le storie fantastiche al terribile sultano persiano Shahriyan. Le raccontò in modo meraviglioso e ininterroto tutte le sere per quasi tre anni riuscendo perfino cambiare il carattere del spietato sovrano. Egli alla fine s’innamorò perdutamente di bella e saggia Shahrizad, e come avviene nelle fiabe, vissero felici e contenti fino alla fine dei tempi che vita gli concesse.
3. giorno, traversata del deserto. La giornata è dedicata alla trasferta: ci aspetta la traversata del deserto rosso Kyzyl Kum di 460 km, cioè di circa 10 ore di viaggio, per arrivare a Bukhara verso sera. Tuttavia, sarebbe sbagliato dire che sarà solo un tragitto noioso, nel deserto ci sono sempre mille cose da vedere, da sentire, da provare. Prima di addentrarci nel deserto stepposo attraversiamo il grande fiume Amu Darya,poi ci ristoriamo con uno spuntino a base di melone, e ogni tanto ci fermiamo per godere i magnifici paesaggi che sempre ci accompagnano. Facciamo una sosta sulla riva del fiume, ammirando l’altra sponda, Turkmena, con i telefonini che stanno ricevendo i messaggi della loro rete. Poi ci fermiamo per salire sui resti, ormai arrugginiti, dei macchinari utensili della produzione sovietica.
Per il pranzo abbiamo scelto un insolito “autogrill del deserto”, dove ci accoglie una lunga tavolata imbandita con le pietanze genuine e semplici. La guida ed io diamo una mano a servire ottima verdura e buon pane uzbeko, mentre un ragazzo del ristorantino si appresta a grigliare la gustosissima carne alla brace. Tutto è preparato apposta per noi e per alcuni altri ospiti locali che usano questa strada per lavoro. Infatti, sono inesistenti i turisti che optano di fare il tragitto da Khiva a Bukhara in pullman, e chi lo fa porta con se il pranzo al sacco. Ma questa è un esperienza unica e irrepetibile: infine cantiamo tutti insieme, qualcuno si mette anche a ballare. La strada è a tratti ricoperta di sabbia e ci sono i lavori in corso. Sta per calare la sera, quando scorgiamo Bukhara, la seconda meta della nostra via della seta. Una città importante perché vi era uno dei più grandi empori di tessuti e dei tappeti che affluivano dalle diverse parti del mondo antico, conosciuta per la presenza e convivenza pacifica di numerose comunità appartenenti alle diverse religioni.
Il nostro albergo è centralissimo; si trova di fronte alla piazza principale, a fianco dell’ingresso del grande bazar coperto. Dopo aver raggiunto le nostre stanze e fatto una doccia veloce, ci dirigiamo verso il ristorante Doston, presso una casa tipica dei benestanti bukhariani (spero che la parola che dovrebbe identificare gli abitanti della città sia giusta). Il locale è molto curato, con gli interni abbelliti da alcuni manufatti della produzione artigianale locale. Ma sopra tutto, si mangia molto bene. F. gioca perfino a fare la modella: si mette un bellissimo capotto in velluto nero con ricami dorati. Dopo la cena la nostra guida ci prepara una gradevole sorpresa. Chiama una sua amica che ci invita a casa sua. Camminiamo attraverso le strette viuzze del vecchio quartiere caratterizzato dalle case dei muri spogli in mattone cotto al sole, senza fineste, con qualche porta più o meno elaborata. Ma spalancata la porta della casa della signora che ci ha invitato, rimaniamo a bocca aperta: è una bellissima casa, che potrebbe facilmente portare il nome “museo”. Scopriamo che la signora Mastura lavora come professoressa in una scuola di ricamo, anche lei un eccezionale ricamatrice. Come da usanza locale ci togliamo le scarpe ed entriamo in un’altra dimensione. La importanza storica e culturale delle rotte commerciali di una volta ci viene rivelata in tutto lo splendore che una dimora dei ricchi commercianti ebrei. Una testimonianza vivente della vita che fu una volta e che scorre tuttora. Ammiriamo dapprima l’elegante architettura che si snoda attorno al grande cortile centrale, poi il vestibolo che custodisce antichi rotoli della Torah, spalancando gli occhi su numerosi dettagli dell’arredamento: i muri ornati dai bianchissimi stucchi e dalle coloratissime maioliche, con le numerose elaborate nicchie, che fungono da scafali adorni con delle porcellane, ceramiche e argenti, gli intarsi e legno intagliato. La ricamatrice infine comincia a sfoggiare i propri lavori : butta sull’enorme tappeto uno, due, tre poi decine di suzani, uno più bello dell’altro, ognuno con i propri fiori, melograni, uccellini, cerchi, alberi … seta su seta, cottone su cottone, luce su luce… ci risulta difficile andarsene via da tutta questa bellezza. Ci racconta che ha un bel negozio nelle vicinanze, invitandoci di venire domani. Sono andata nel pomeriggio. Bisogna pero tornare in albergo e riposare bene: domani iniziano le visite ufficiali.
“Kasthacilik“, il ricamo tradizionale uzbeko riflette il modo di vivere e le tradizioni, ma sopratutto l’amore per tutti gli esseri viventi. Orna i più svariati manufatti con filo (di seta, cotone o lana) fatto all’uncinetto delle popolazioni dell’Asia centrale comprendendo tutto il ricamabile, dai drappi e indumenti fino a bardature per i cavalli. Raffinati fili intreciati ricoprono copricapi “dupi”, “kalpok” o “tubeteika”, decorano vestiti femminili “kuylak” e maschili “chapan” e sopratutto ornano case uzbeke con diversi tipi di “suzani”: “palak”, pannelli grandi, “parda”, tende, “kurpach”, tovaglie e culle “gavora”. “Suzani”, il tessuto ricamato d’arredo è un termine che significa ricamato ad ago. L’area in cui vengono prodotti è una delle antiche tappe centrali della Via della Seta: quindi si producevano nelle manifatture di centri come Bukhara, Nurata, Samarcanda e Tashkent, ma anche nelle case semplici dei villaggi rurali. Le ricamatrici appartenevano in larga parte all’etnia uzbeka, di remota origine turco-mongola, ma anche a quella iranica, tagika e khirghiza. Tra tutte queste popolazioni l’arte tessile aveva ed ha un ruolo importanti iniziando a svilupparsi attraverso le scuole di ricamo a partire dal XVII secolo e raggiungendo apice a cavallo tra il XIX e XX secolo: i manufatti, che spaziano dalle finissime sete ai robusti feltri, si distinguono per la raffinatezza esecutiva e decorativa, per le fantasie ineguagliabili e per i significati iconografici e simbolici introvabili da altre parti. Le decorazioni traggono le origini negli antichi tessuti iranici dell’epoca sassanide, ornati da animali fantastici racchiusi dentro medaglioni tondeggianti, con tante altre influenze. Alcune componenti dei ornamenti hanno radici nel repertorio floreale delle genti nomadi turche o mongole, poi vi sono contributi della simbologia ancestrale e sciamanica, ma anche quelli di diverse confessioni religiose, con aggiunta dei apporti del “moderno” e raffinato stile urbano. I significati di questi magnifici disegni sono tutt’ora oggetto di diversi studi antropologici: le mandorle sono un simbolo di eternità, i melegrane richiamano benessere e ricchezza, il peperoncino serve per allontanare la gelosia e il malocchio Tradizionalmente venivano ricamati dalle fanciulle da marito per il proprio corredo, e il loro impiego era molteplice: all’interno delle case erano impiegati come arazzi per le pareti, come tende per dividere gli ambienti, come copriletti e tovaglie e come arredi propiziatori per la fertilità dell’alcova nuziale. Gli artigiani di Bukhara preferiscono usare i punti “bosma”, “dol” e “iroki”, sui tessuti con delle cuciture e trame allentate.
4. giorno, Bukhara, la nobile. Dopo la prima colazione iniziamo ad esplorare la città. Le serrande dei negozi sono ancora abbassate ma le bancarelle ai bordi delle stradine che attraversiamo cominciano a riempirsi dei vari prodotti dell’artigianato locale, soprattutto tessile. Siamo giunti al mercato. Ammiriamo le diverse cupole che si innalzano agli incroci delle strade del mercato di Bukhara, chiamate “toq”, erette per regalare un po’ di ristoro ai commercianti spesso stanchi dopo i lunghissimi giorni passati in groppa ai cammelli. Oggi sono conservati alcuni dei più importanti toq, suddivisi per le merci che trattavano: tra essi Toq-i-Zargaron (gioiellieri); Toq-i-Sarrafon (cambiavalute) e Toq-i-Telpak (cappellai). Iniziamo visitando le Madrase di Ulughbek e di Abdul Aziz Khan poi ci fermiamo nella piazza dove spunta il noto minareto Kalon, simbolo della città con l’omonima moschea. Vistiamo (ed è una sorpresa, perché essendo attiva non risulta visitabile) la madrasa di Mir-i-Arabi, un splendido e prestigioso edifico voluto dallo sceicco yemenita sufi Abdullah Yamani. Abbiamo anche un po’ di tempo libero per le compere dandoci un appuntamento. C’è di tutto, i suzani, le tovaglie, le immancabili sciarpe in ottima seta uzbeka e qualche gioiello etnico, e quando ci troviamo, siamo tutti carichi di vari souvenir, uno più bello dell’altro. Io ho trovato delle forbici, mi diceva commerciante – le migliori al mondo. Scrivendo questo diario alcuni mesi dopo affermo che aveva ragione. Segue la visita ad un laboratorio di tappeti – i nero-rossi bukhara – famosi in tutto il mondo. Pranziamo cercando di sbrigarsi quanto possibile, perché tutto ci piace moltissimo e vogliamo vedere quanto più possibile. Corriamo a vedere Ark, la fortezza con le sue torri, mura, scale e corridoi. C’è anche un piccolo museo di pregiati manoscritti, alcuni scritti sui fogli in seta. Ci fermiamo brevemente per dare un’occhiata al romantico Lyab-i Hauz che si specchia nell’antistante laghetto, composta da due madrase, Divanbeghi e Kukeldashe da un khonak per i dervisci.
Il nome Lyab-i Hauz viene tradotto come “l’orlo della piscina”. Secondo una leggenda al posto del bel complesso di Lyab-i Hauz, edificato tra XVI e XVII sec, ci furono diverse case, che gran visir Nadir Divanbeghi comprò tutte, spianando in seguito il terreno per il suo progetto. Rimaneva solo la casa di una donna ebrea senza famiglia, che non voleva venderla a nessun prezzo. Sul posto della casa doveva sorgere il khonak per i dervisci. Visir decise di usare la furbizia e ordinò di scavare una grande fossa accanto alla casa, supponendo che questa operazione la fece crollare. Ma la casa non crollò. Allora Visir ordinò di riempire la fossa d’acqua sperando che le zanzare apparse ben presto infastidirono la padrona. L’anziana finalmente accettò la proposta di venderla, ottenendo in cambio oltre i soldi anche la promessa della costruzione della sinagoga nel quartiere vicino.
Nonostante meno presente della Samarcanda nell’immaginario comune occidentale, Bukhara, patrimonio UNESCO anch’essa, lo merita a titolo pieno. Un detto uzbeko dice “Samarcanda è la meraviglia della terra, ma Bukhara è la meraviglia dello spirito”. Detta “la sacra” o “la nobile”, nel IX secolo fu la capitale del regno samanide. Fortunatamente il suo centro storico non fu compromesso dalla ricostruzione sovietica, cosi vanta un numero elevato di stupendi edifici molto ben conservati. È il tempo per un breve riposo in albergo, per poter uscire di nuovo alla sera. Alcuni (io compresa) però saltano il riposo, passeggiando per conto suo, curiosando qua e la, visitando altre moschee e musei. Infine ho comperato uno stupendo cappellino antico in velluto nero, confezionato nella Corasmia, abbelito da una bella “frangia” e le monetine in argento. Inoltre ho visitato il negozio della signora M., con una scelta che spazia dall’antiquariato fino all’abbigliamento tradizionale creato nei tempi recenti. Dopo aver riposato visitiamo il semplice Mausoleo di Ismail Samani dal IX sec., eretto e decorato solo con del mattone. Il suo color deserto e la sua forma cubica ricordano la sacra Kaaba. Sulla testa porto il mio nuovo acquisto, troppo bello per non essere sfoggiato. In seguito visitiamo la piccola madrasa Chor Minor con quattro minareti, simbolo delle quattro città del vasto mondo musulmano: Bukhara, Samarcanda, Damasco e Bagdad. Oggi le ultime due purtroppo vengono spesso citate non come le meraviglie del mondo antico, ma come teatri delle tristi vicende belliche. Anche oggi ceniamo in una location particolare: si tratta di una casa di campagna di ricchi commercianti, anch’essa con dei splendidi interni, vasti magazzini e un bel giardino. Dopo cena, nella hall dell’albergo, Hurshid tiene una interessantissima conferenza: presenta alcune foto raccontandoci l’“avventura della sua vita”, quando con gli amici andò a rintracciare le sponde del prosciugato lago Aral, tristemente conosciuto come uno dei maggiori disastri ambientali al mondo.</
5. giorno, in viaggio verso Samarcanda. Shakhsrisabz. Dopo la prima colazione, davanti all’albergo, riceviamo una “benedizione del viaggio” da parte di una vecchietta che brucia ramoscelli e ci “affumica” in cambio di pochi spiccioli. Iniziamo la seconda traversata del deserto, questa volta però viaggiamo seguendo un altro fiume, KashkaDarya. Chiediamo dove possiamo fare qualche fermata originale e Hurshid ci propone una deviazione per breve fermata presso un mercato che si svolge ancora “per terra”, uno degli ultimi rimasti. Le camionette piene zeppe di meloni e di angurie, gli asini carichi di spezie, le bancarelle con sale e zucchero venduto in cubi, i tavolini con frutta e verdura, le vecchie auto con i bagagliai pieni di tacchini e galline vive, le tovaglie stese per terra con dei casalinghi e minuteria, i fili da cui pendono tessuti di tutti i tipi, dall’ottimo cotone uzbeko, al tessuto sintetico con i ricami sgargianti made in China… Alcuni hanno dollari con cui vogliono comprare qualche pezzo di stoffa, ma nessuno dei mercanti lo conosce. I bambini cavalcano e impennano asini apposta per noi per farsi filmare, le donne ci salutano con dei sorrisi con dei denti d’oro invitandoci a fare le foto insieme. Siamo così presi dal mercato che ci fermiamo molto tempo in più rispetto la breve sosta prevista, e la guida deve richiamarci all’ordine. Proseguendo lungo la strada incontriamo diversi mezzi agricoli di produzione sovietica, alcune pompe per l’estrazione di petrolio, diversi villaggi e, ovviamente tanta sabbia. Pranziamo in un semplice agriturismo alla periferia di Shakhrisabz, la città natale di Tamerlano. Amir Temur Lenk (emiro Timur lo zoppo, nomignolo affibbiatogli dagli iraniani è nato nel 1336 in un villaggio vicino a Kesh in Transaxonia. Il nome Shakhrisabz è tagiko e significa “città verde”. Nel medioevo la città fu chiamata Kesh, ma è diventata importante solo nel XIV secolo con Amir Temur che la governava da quando aveva venticinque anni. Era un condottiero temibile che ha sconfitto turchi e l’Orda d’Oro, che ha combattuto armeni, georgiani e iraniani, che ha sottomesso l’India e l’Asia Minore, e le città europee come Kiev e Mosca. Il suo regno, detto Movarounnahr si estendeva dall’Egitto a Kashgar, con la Samarcanda capitale. Shakhrizabz, la citta natale fu considerata come una seconda capitale. Temur mori il 19 febbraio 1405 in Otrar oggi in Kazakhstan. Si narra che egli desiderava essere sepolto a Shakhrisabz, ma per le difficoltà dovute a diversi metri di neve caduta sulle strade, la rotta fu cambiata e i suoi resti mortali furono portati a Samarcanda dove giace tuttora. Forse i motivi della sepoltura nella capitale erano più politici che meteorologici, ma leggenda è comunque – come tutte quelle che stiamo sentendo – molto bella.
Il complesso monumentale comprende le rovine del palazzo Ak-Saray, il mausoleo di fratello Jakhongir Dorut-Saodat , il mausoleo della sua guida spirituale Shamseddin Kulyal detto Dorut-Tillavat ed infine la moschea Kok-Gumbaz. Patrimonio UNESCO da 2000, oggi si presenta come un enorme cantiere; sono in corso lavori sia di restauro sia di riqualifica urbana, tutti volti alla promozione dell’eroe nazionale, Tamerlano. Proseguiamo verso Samarcanda attraverso un paesaggio caratterizzato da colline verdi con frutteti e vigneti. Kurshid mantiene la sua promessa: scendiamo per vedere una coltivazione di cottone, purtroppo responsabile per il prosciugamento del lago di Aral. Ci sono sia i fiori che i fiocchi di questa bellissima pianta che conoscevamo finora sopratutto come prodotto finito, la tovaglia, il lenzuolo o la T-shirt. E’ quasi buio quando iniziamo a scorgere le prime case della capitale di Tamerlano. Hurshid è qui di casa, e il suo amore per la propria città si sente subito quando comincia raccontarla.
Informazioni festival. Dato che proprio in quei giorni a Samarcanda è in corso il festival internazionale della musica folkloristica, (lo vediamo anche dal traffico) chiedo a Hurshid (senza farmi sentire da tutti) se è possibile assister ad uno spettacolo. Risponde che sarà molto difficile, perché non ci sono i biglietti ma solo inviti per la serata di domani. Aggiunge che proverà a trovare qualche via secondaria attraverso amici, parenti e conoscenti …. il metodo che funziona – purtroppo – in tutto il mondo.
Mentre procediamo verso l‘albergo, Hurshid ci racconta la storia dei luoghi che stiamo incontrando. Attraversiamo una zona residenziale creatasi a seguito dell’immigrazione russa; osserviamo la chiesa armena e quella russo-ortodossa, sedi delle banche e palazzi dell’ufficio postale e dei trasporti, tutti in stile liberty, come anche la villa in cui è ubicato il nostro hotel. Dopo aver preso le stanze, ceniamo in ristorante dell’albergo, molto chic. Dopo la cena ci accomodiamo in una ampia sala con un bel pianoforte, purtroppo non accordato da chi sa quando. Fa niente, la nostra pianista G. si mette “al lavoro” e tutti quanti iniziamo a cantare. Stiamo passando una bella sera. Decidiamo di fare due passi e Hurshid ci propone una gita in taxi fino alla imponente Registan. Mi correggo: e stata una bellissississima sera.
Informazioni festival. Prima di andare a dormire mi ritrovo come sempre con la guida per fare la programmazione per il giorno dopo. Hurshid mi dice che ha già fatto qualche telefonata, e chiede di consegnargli il mio biglietto da visita, che risulto la proprietaria di un importante Tour Operator italiano e anche quello di Sara, che è il Sindaco di una città lombarda. Sono due cose che possono avere peso presso le autorità per concederci la possibilità di ottenere gli inviti e assistere alla serata – concerto presso le magnifiche strutture di madrase di Registan.
6. giorno, Samarcanda, la magica. Dopo la colazione iniziamo le visite di Samarcanda, coetanea di Roma, una delle città più antiche del mondo, fiorita nel corso dei secoli grazie alla sua posizione strategica lungo la via della seta. Nei diversi momenti storici fu la più ricca città dell’Asia Centrale. Molti sono i monumenti che raccontano la sua gloria, e bisogna fare una scelta. Iniziamo dal complesso di Gur Emir che contiene il mausoleo del suo cittadino più famoso, Amir Temur o Tamerlano. Oltre la tomba del condottiero, ci sono le tombe dei suoi figli e la tomba del adorato nipote Ulukhbek. Si prosegue con la bellissima piazza Registan il cui nome significa un luogo sabbioso con le sue tre imponenti madrase: la più antica, Madrasa di Ulukhbek del XV secolo, e due del XVII secolo, Sher-Dor e Tiliya-Kari. Sono interamente ricoperte dalle magnifiche decorazioni in ceramica dei colori stupendi in tutte le sfumature dei azzurri, blu e bianchi. Nonostante diversi cambiamenti avvenuti nel corso dei secoli, la piazza è riuscita a conservare l’atmosfera originale. La sua costruzione iniziò nel periodo di Tamerlano, nella seconda metà del XIV secolo proseguendo con le costruzioni volute dal suo nipote Ulukhbek nella prima metà del XV secolo, concludendosi duecento anni dopo, nel XVII secolo con Bakhadur Yalangtush Biy. Il complesso è circondato da meravigliosi giardini ma anche da un lungo recinto sorvegliato dai poliziotti. C’è il Festival, e noi, come molti altri turisti che si lamentano non possiamo scendere fino alle madrase per ammirarle da vicino, quindi ci facciamo a vicenda le foto: di gruppo, da soli, in coppia. Come ho già detto all’inizio di questo racconto, non siamo turisti comuni: abbiamo la nostra buona stella che ci guarda dall’alto.
Informazioni festival: Hurshid è quasi sicuro di poter avere gli inviti, ha già incontrato gli organizzatori stamattina. Ogni tanto telefona, dovrà abbandonarci nel ora del pranzo, non promettendo niente fino a quando non avrà i biglietti di tutti in tasca. La questione sta diventando un racconto giallo
Giriamo attorno al complesso di Registan: andiamo a visitare la moschea di Bibi Khanum. Al centro del cortile si trova un enorme leggio in marmo grigio della Mongolia, sul quale per secoli fu appoggiato il più grande Corano del mondo, portato a Samarkanda da Osman Hazrat, un cugino di Maometto. Il corano pesa 300 chili, ed è uno tra i più antichi (è del VIII sec) e i più preziosi del mondo (rivestito di oro e argento). Fu rubato dagli zaristi russi e restituito solo 10 anni fa alla città di Tashkent, dove lo vedremo fra qualche giorno. Il leggio, “Lavha Quroni”, rimasto privo della sua funzione, è diventato per la gente un oggetto dotato di poteri soprannaturali. Secondo le credenze le ragazze troveranno marito se vi compiono un giro attorno, e le donne sterili avranno un figlio se passano tra le gambe di pietra che lo sostengono. La moschea attuale è stupenda, con tanto di archi alti 30 metri, ben quattro minareti, decine di cupole e centinaia di colonne di marmo bianco. In verità, la grande moschea che siamo abituati a conoscere come il nome Moschea di Bibi Khanum non è l’originale; l’antica moschea è molto più modesta e si trova rinchiusa tra le inferriate.
Secondo una leggenda, la bellissima moglie di Amir Temur, Bibi Khanum voleva offrire questa moschea come regalo al marito per il suo ritorno dalla campagna dell’India. L’opera all’inizio procedeva bene, ma verso la fine si fermò. La principessa chiese spiegazioni e l’architetto dichiarò di essere innamorato di lei: non voleva proseguire senza un suo bacio. Furibonda per tale insulto, rispose che le sue parole possono costargli la vita, ma lui ribadì che in tal caso anche la moschea vedrà la sua fine. Lei alla fine accettò di essere baciata, ma avvicinatosi il momento mise un pezzo di stoffa – da cui secondo la leggenda trae l’origine il burka islamico tra le labbra dell’architetto e la propria guancia. Il bacio però era così bollente che bruciò l’ostacolo lasciando un’impronta indelebile sulla guancia della sfortunata Khanum. Tornato dalla guerra Amir Temur era meravigliato della maestosa costruzione, ma la sua gioia mutò in rabbia quando si accorse dell’impronta sulla guancia. Ordinò di arrestare e giustiziare sfortunato architetto che aveva profanato la guancia della sua amata. Egli, essendo un ingegnereabilissimo costruì per se due ali e volò via dal minareto della costruzione. Alla fine, accecato dall’ira e sconfitto nella sua intenzione, l’invincibile sovrano ordinò la distruzione dell’edificio, mentre Bibi Khanum dovette per sempre portare burka, per non indurre mai più nessuno al peccato con la sua incredibile bellezza.
Un’altra leggenda narra che la moschea fu costruita da Tamerlano stesso, sempre in onore della principessa mongola dal nome Bibi Khanum, la più amata delle sue nove mogli. Si dice che impiegò 90 elefanti portati dall’India per trasportare le pietre dalle cave, e che dava personalmente la carne di pecora ai muratori per invogliargli a lavorare meglio e con più vigore. La moschea attuale, come abbiamo già detto, è stupenda, con alti archi, quattro minareti, decine di cupole e centinaia di colonne di marmo bianco, ma all’inizio fu progettata male: subito dopo che furono innalzati primi archi, la costruzione iniziò a ripiegarsi su se stessa, perdendo i pezzi di mattoni e di maioliche. Tamerlano furibondo ordinò di tagliare la testa agli architetti colpevoli del progetto: uno di questi per non subire la tortura ed umiliazione preferì buttarsi dal minareto.
Al termine della mattinata sostiamo al colorato mercato Siab, dove gli incontri e le trattative con i venditori sono molto spassose. Curiosiamo tra le spezie di cui alcune conosciamo e altre no, ammiriamo la frutta e la verdura che proviene maggiormente dalla Valle di Fergana. Ciò che ci incuriosisce di più è la preparazione del pane, che viene cotto in una forma particolare. Segue il pranzo, Hurshid ci abbandona e i nostri autisti Erkin e Rashid si prendono cura di tutti noi, in particolare di P. e F, le più anziane del nostro gruppo, facendo i cavalieri come si faceva una volta.
Informazioni festival: come promesso, Hurshid ci lascia da soli, partendo il taxi a trovare l’amico. Torna quando siamo alla frutta che si rivela diversa da quella del proverbio. La nostra guida ha ottenuto gli inviti. In tutto il mondo vale la regola che è un bene avere gli amici. Così stasera assisteremo al Festival folcloristico internazionale di Samarcanda.
Adesso bisogna affrettarsi davvero. Per non escludere niente dal programma, facciamo la nostra ultima visita della giornata: la cittadella sulla collina di Afrasiab. Le fonti iraniane riportate nel libro Shah-name – Il libro dei Re ci informano che il re Kay-Khosrov dopo aver eretto a Maracanda l’altare del fuoco sacro, vi fece costruire il tempio e poi le mura per proteggere la città nata attorno il santuario. In seguito, la ricca Maracanda, la capitale achemenide della Sogdiana, fu distrutta da Alessandro Macedone nel IV sec a.C. Si riprese in fretta diventando la più importante città sulla via del fiorente commercio internazionale. A governarla si susseguono le dinastie eftalite, turche e perfino cinesi della dinastia Tan i quali hanno eretto i quattro anelli delle nuove mura, diversi templi zoroastriani, buddhisti, cristiani. Di tutta questa ricchezza sono testimoni gli splendidi affreschi del palazzo del governatore, datati nel VIII secolo, dipinti poco prima della conquista araba. Usciamo e ci dirigiamo verso l’albergo. Siamo molto disciplinati perché dobbiamo rispettare gli orari stabiliti da oramai celeberrimi “inviti”. Abbiamo un’oretta scarsa per “farsi belli”, e come ho il ferro da stiro in valigia lo faccio girare tra le stanze. Nonostante poco tempo che avevamo a disposizione, siamo tutti pronti cinque minuti prima dell’ora prestabilita. Siamo “in gala” (quanto è possibile in un tour), anche Hurshid è in giacca e cravatta, io con il cappellino della Chorasmia. Ci rendiamo conto che mancano due biglietti, quindi bisogna inventare qualcosa. La necessità aguzza il genio, così decido che spiegherò agli addetti alla sicurezza che due signore più anziane hanno dimenticato propri inviti in albergo, perché erano troppo emozionate: il visto collettivo attesta che siamo un gruppo. Attorno la piazza Registan c’è una sicurezza incredibile, alla serata parteciperanno parecchi V.I.P e nostro pullman è obbligato a seguire un particolare itinerario. Ci fa scendere al posto che ci indicano, camminiamo per cinque minuti e poi ci mettiamo in fila. Senza alcun problema passiamo numerosi posti di controllo, i funzionari sono rigidissimi ma fila tutto liscio: metal detector, borse, inviti, visto, passaporti.
Prosegue tutto per il meglio: abbiamo preso i nostri posti, siamo dentro il recinto del Festival, riconoscenti al Hurshid che ci ha procurato quest’emozione unica. Finalmente possiamo rilassarci. Dopo le giornate stancanti, incastonati insieme con gli altri ospiti della serata nella splendida cornice della piazza di Registan, ci facciamo coccolare dalla piacevole frescura del limpido crepuscolo di Samarcanda. Questo crepuscolo, memore di tanti raduni, ci racconta che quelli che venivano in questo luogo magico dopo aver percorso molta strada, dopo aver corso molti pericoli, dopo aver perso o guadagnato, dopo aver riso o pianto venivano qui, proprio come noi, nello stesso identico momento della giornata, nello stesso luogo, per nutrirsi della pura bellezza, dimentichi di tutto ciò che era prima e che accadrà dopo. Arrivavano commercianti e mendicanti, studiosi e pellegrini, ricchi e poveri. Mi sento parte di tutto, insieme con noi oggi ci sono tante altre persone che non si conoscono, arrivate da tutte le parti del mondo, unite sotto e attorno questa rapsodia dei blu insieme con quelli che ci sono stati cento o duecento anni fa, e che torneranno anche l’anno prossimo o fra cent’anni.
Si fa buio, ammiriamo il cielo che diventa sempre più scuro, ammaliati dalla bellezza di tre grandi edifici, una bellezza grandiosa e allo stesso tempo intima, che ci è stata donata in modo gratuito e improvvisato, percepita da ciascuno di noi in modo così singolare. Meno male che i giochi di luce sulle magnifiche facciate delle madrase, un po’ troppo colorati e la musica un po troppo alta mi riportano dalle piccole nuvole bianche alle sedie della gradinata e al scambiare qualche parola con tutti. Mi vengono in mente parole di Vecchioni: Corri cavallo, corri ti prego / Fino a Samarcanda io ti guiderò / Non ti fermare, vola ti prego / Corri come il vento che mi salverò … Non è poi cosi llontana Samarcanda … e chiudo.
Durante la serata ecco che arriva anche il compito dell’accompagnatrice: A. ad un certo punto mi chiede di accompagnarlo ai servizi, ma non sappiamo dove si trovano. Scopriamo che per arrivare alla toilette dobbiamo entrare nella madrasa e da qui dobbiamo attraversare diversi cortili, tutti gli iwan e magnifici giardini. Lo stiamo facendo con grande gioia, parlando e fotografando le ragazze in costume che devono fare le prove. Torniamo, e poi tutti all’improvviso, due per due scoprono che devono andare in bagno. Il percorso verso le toilette è una vera rivelazione: è una visita che tutti gli turisti arrivati a Samarcanda in questi giorni desideravano senza poter compierla, per via del Festival. Ci siamo riusciti, la buona stella ha funzionato anche questa volta. Il concerto di cui ho sentito solo l’inizio, è finito.
Ceniamo in un ristorante locale dove si canta e si balla: una famiglia uzbeka che mangia vicino al nostro tavolo fa amicizia con noi. Ci offrono da bere, balliamo insieme, facciamo le foto, scambiamo gli indirizzi e-mail. Felicissimi, torniamo in albergo e andiamo a nanna.
7. giorno, Samarcanda, la magica. Facciamo la prima colazione molto presto, caricando le valigie sul pullman che parte per Taskent. Ieri abbiamo avuto uno splendido fuori programma, oggi dobbiamo sbrigarci un po’. Ci rechiamo di nuovo alla colle di Afrasiab, per fare la visita al complesso dell’osservatorio astronomico di Ulughbek, il grande astronomo, nipote di Tamerlano. Osservatorio del XV secolo, luogo di molte scoperte astronomiche era il più grande della sua epoca, ma in seguito fu dimenticato e poi riscoperto solo nel XX secolo dal archeologo russo Vyatkin Habiba Sultan che dedicò la sua vita a Samarcanda. Si tratta di una costruzione cilindrica di 46 m di diametro, con annesso quadrante di 40 metri e famoso arco di 63 m che veniva utilizzato per le misurazioni dei movimenti del Sole, della Luna e degli altri corpi celesti. Visitiamo anche l’attiguo museo, dove sono esposti libri e documenti con le testimonianze europee che vennero a sapere di questo luogo nel 1648, quando ad Oxford fu pubblicata una parte del famoso trattato di Ulukbekh, il “Zidj” (tabelle), un catalogo di oltre 1000 stelle.
Nelle vicinanze, sempre sulla collina si trova anche il Mausoleo di Khodja Doniyar, biblico profeta Daniele, rispettato dalle tre religioni del libro. Nel medioevo la sepoltura del profeta veniva localizzata nel medio oriente molto vagamente. Si ritiene che le sue spoglie furono portate qui da Tamerlano in segno di buon auspicio dalla località di Susa, in Iran, dove si trova quella creduta ad essere la prima tomba del profeta. Si tratta di un mausoleo stretto e lunghissimo: le dimensioni sono dovute alla leggenda che narra come il corpo del santo sta crescendo anche dopo la morte, il motivo per cui il sarcofago deve essere continuamente allungato. Leggenda è bella, ma la più veritiera è la teoria che sostiene che il sarcofago viene costruito così lungo per scoraggiare eventuali ladri, che vista la lunghezza non potevano individuare l’esatta posizione dei resti.
Segue la visita alla necropoli di Shakh-i-Zinda, un complesso cimiteriale il cui nome significa scià vivente si è formato in otto secoli dal XI al XIX. la cui nascita è legata al personaggio di Kussam-ibn Abbas, un cugino del profeta e perfetto sosia di Maometto, che nel VII secolo portò l’islam in queste terre. La leggenda narra che lui, dopo essere ferito a morte presso le mura di Samarcanda, ebbe la possibilità di rifugiarsi sotto la terra nel pozzo profondo del Giardino del Paradiso che si aprì apposta per lui: qui riprese la sua testa decapitata e continuò ad abitare fino ad oggi. Per entrarci dobbiamo salire i 40 gradini, il cui numero non è casuale. E’ un numero del paradiso che allude all’infinito, utilizzato spesso nei testi sacri e profani: ricordiamo Ali Baba e quaranta ladroni, quaranta giorni della quaresima ecc. Secondo una credenza popolare, se si percorre con la fede la scala conferisce le forze magiche. I pellegrini devono contare i gradini pregando e se la quantità di gradini contati lungo la salita e nella discesa risulta uguale, il pellegrino sarà esaudito e purificato di tutti si sui peccati; se invece la quantità di gradini contati nella salita e nella discesa risulta diversa, il pellegrino deve ricompiere il suo pellegrinaggio. Gli edifici sono bellissimi, decorati con piastrelle, maioliche, mosaici, iscrizioni, mattoni intrecciati in modo curioso. C’è molto da vedere, rimangono nella mente il complesso con il Mausoleo e la Moschea di Kussam-ibn Abbas, il più antico, particolarmente bello e raffinato il Mausoleo di Shirin Bika Aga, sorella di Tamerlano e attigua insolita cripta detta Ottangolare e infine l’imponente la porta sud Darwazakhana costruita da Ulukbekh.
Segue il pranzo in un elegante ristorante, Samarkand, ubicato in una villa ottocentesca; servono il plov, il piatto tradizionale uzbeko a base di riso che Hurshid ha ordinato apposta per noi stamattina, spiegandoci che non si può andar via da Uzbekistan senza averlo assaggiato. Rispondo di ordinarlo non oggi, ma tra una settimana, così possiamo rimanere di più…
G. e suo marito C. che mi fanno compagnia davanti al ristorante, sono molto contenti del viaggio, quando sono partiti non immaginavano un paese così bello e interessante. Dopo il pranzo approfittiamo per fare una passeggiata per digerire anche perché siamo senza pullman che è partito per Tashkent la mattina stessa. Fa caldo, diamo un ultimo saluto a Samarcanda; passiamo accanto allo stadio ed entriamo nei alcuni supermarket del posto per vedere in che cosa consistono e quanto costano prodotti destinati alla gente comune, pane, latte, riso, prodotti per l’igiene. Alla fine della passeggiata ci fermiamo in una boutique dove assistiamo a una sfilata di costumi storici uzbeki; la stilista che gestisce questo piccolo laboratorio è davvero bravissima, fa capi dell’abbigliamento che farebbero arrossire molti brand più famosi. Bisogna recarsi al Vokzal Samarkand ovvero alla stazione ferroviaria dove ci aspetta Afrasiab, la freccia rossa uzbeka che collega la capitale Tashkent con la magica Samarcanda, la capitale vecchia.
Il treno è davvero mezzo ideale per spostarsi: veloce, pulito, comodo. E’ un ottima scelta della Geaway e del nostro corrispondente, occorre proprio dirlo. Abbiamo guadagnato tempo per le ultime visite e risparmiato tanta fatica; poi, avendo uno scomparto tutto per noi riusciamo a rilassarci un po’, chiacchierando e ammirando i paesaggi che scorrono veloci. In sole due ore e un quarto siamo a Tasheknt dove ci aspetta il pullman, le nostre valigie e i nostri bravi autisti, partiti stamattina. Certamente, la giornata non è finita qui: ci aspetta una cena tipica accompagnata dalle musiche e dalle danze tipiche. Incontriamo un altro gruppo che è partito stamattina da Samarcanda e che dall’inizio fa le stesse tappe come noi. Ho chiesto tutti di non raccontare agli altri tutto ciò che abbiamo visto e fatto in questi giorni perché abbiamo viaggiato in modo particolare e unico, ma qualcuno sente qualche nostro commento su Registan e ci chiede come mai siamo riusciti… cerchiamo di far finta di niente, spostando attenzione verso altri argomenti. Infine andiamo all’albergo: “Lotte” è molto bello: spazioso, moderno, centrale, proprio sulla piazza del Teatro dell’opera “Alisher Navoi”: è uno spettacolo guardare la città dalla finestra.
7. giorno, Tashkent. Ultimo giorno e ultima tappa è Tashkent, antica Shash, la capitale dell’Uzbekistan moderna. Visitiamo prima la piazza del teatro Navoi, poi altri quartieri moderni con la Piazza dell’Indipendenza e la Piazza di Tamerlano; ogni tanto qua e la spunta qualche edificio vecchio. In verità anche Tashkent ha origini antiche, con primi insediamenti del VI secolo a.C., fondata come città dagli Arabi nel 750. Per molto tempo fu controllata dalle popolazioni turkmene, finché non fu occupata dai Cinesi. Nel 1219 la città fu distrutta da Gengis Khan, per poi essere ricostruita alcuni anni dopo. Nel 1809 la città verrà annessa al Khanato; nel 1865 diventa parte dell’Impero russo. Poco rimane del suo passato a causa di un terremoto che la distrusse nel 1966, ma ancora di più a causa della realizzazione di un piano urbanistico sovietico dell’inizio degli anni venti del XX secolo. Oggi, con i suoi due milioni di abitanti, Tashkent è una città tipica dell’Europa Orientale, ricca di monumentali edifici amministrativi, immensi parchi ed enormi condomini. La parte più antica è costituita dal complesso Hasti Imam che rappresenta il cuore spirituale di Tashkent, con la Madrassa Barak Khan, la Moschea Tila Shaikh e Mausoleo di Abu Bakhr. Vi è anche l’emporio dell’artigianato. Per noi significa la possibilità di comprare ultime collane, ultime scatole, ultime sciarpe, con dei bei esemplari di lavorazione in ikat. P. e S. sono rassegnati con la quantità dei acquisti che hanno fatto le loro mogli, sorelle R e A ma anche contenti perché sembra che loro mogli non hanno dimenticato proprio nessuno.
Ikat, che significa nuvola, è una delle più interessanti lavorazioni dei tessuti nell’Asia centrale. L’Ikat uzbeko presenta una grande varietà nella scelta di materiali da tingere. Tecnicamente, l’ikat è una lavorazione detta “la tintura in filo a riserva”. Il procedimento della colorazione prevede che le parti dei filati vengono strettamente fasciati, tramite una particolare legatura, che fa in modo che queste parti del filato non possono assorbire il colore, mentre le parti non legate si colorano. Si distingue un ikat semplice, nel quale la tintura è praticata sui fili dell’ordito, da un ikat doppio, più complesso, nel quale sono trattati con analogo procedimento della fasciatura anche i fili della trama. Il trattamento può essere ripetuto diverse volte: più volte si “legano” i fili, più i colori dell’ikat sono numerosi, più è pregevole il prezioso tessuto finale.
Dopo la visita alla moschea di Hasti Imam dove abbiamo potuto ammirare il Corano più antico al mondo, andiamo al mercato di Tashkent. Ultimissime compere sono quelle alimentari. Purtroppo non è possibile portare la frutta in Italia, uva e fichi provenienti dalla valle di Fergana sono spettacolari. C’è una varietà di merci che fa girare la testa. Prima di pranzo andiamo visitare il Museo delle arti applicate, dove facciamo un riassunto di tutto ciò che abbiamo visto in questo viaggio: i suzani, l’ikat, le tubeteike, i tappeti, i tavolini in legno dipinti, le ceramiche, i gioielli , i fucili e le spade. Ovviamente, sono oggetti da museo, con un’importanza culturale e storica, e di una lavorazione superba… Pranziamo in una trattoria tipica e poi ci rechiamo all’aeroporto. F. imbarca un suo acquisto speciale, un bel tavolino pieghevole dipinto. Un altra avventura sta per finire. Diciamo “addio” oppure un “arrivederci Uzbekistan”. A Milano è già domani.
8. giorno, Milano. Si vola sorvolando le città e deserti che abbiamo visitato in questi giorni passati così velocemente. Domani che diventa oggi. Siamo a casa, arricchiti di una esperienza straordinaria.