DIARIO DI UN VIAGGIO IN CAMBOGIA
XX. Si può fare l’itinerario cambogiano arrivando in volo a Siem Reap, paese attorno a cui sorge uno dei più importanti siti archeologici del mondo, Angkor, e in seguito scendere in pullman verso Phnom Penh. Se invece si arriva via terra/via fiume a Phnom Penh, si salirà in pullman verso Siem Reap, facendo lo stesso itinerario al contrario.
XX la capitale, Phnom Penh. La variante in motonave. Carichiamo le valigie sui pullmini (il pullman non può arrivare al lodge), poi riprendiamo il nostro pullman e andiamo all’imbarcadero di Chau Doc: in Cambogia ci porterà una motonave. Dopo un’oretta si arriva al confine vietnamita, dove scendiamo, consegnando i soldi ad un’assistente che ci aiuterà ad ottenere i visti, che in questo caso costano non 30 ma 34US$. L. si è addormentata sulla prua, mentre A. sta prendendo il sole… Riprendiamo brevemente la barca, dopo pochi metri scendiamo un’altra volta, questa volta in Cambogia dove il visto sarà convalidato e dove ci faranno i controlli: prenderanno le impronte digitali, faranno rilevamento delle pupille, applicheranno sul passaporto un foglietto dell’immigrazione. C’è un po’ di coda, ma tutto fila liscio e sorprendentemente veloce. Seguono altre tre ore di viaggio. Arrivando da Vientam, si può arrivare anche via terra, attraversando il fiume Mekong : nei tempi in cui ho iniziato a frequentare Cambogia c’era un traghetto che assomigliava a una gigantesca zattera, oggi c’è il ponte, recente e di una bella struttura… Prima dell’una siamo a Phnom Penh, la capitale cambogiana che ci accoglie con i suoi nuovissimi grattacieli, tra cui spiccano il Canadia Tower e il Vattanac Capital Tower, alta 183,8 metri, site nel cuore finanziario di Phnom Penh. Quest’ultima è una nuova icona della città sia perché rappresenta un modello di progettazione energeticamente efficiente sia perché nasce da un’interessante esperienza di “placemaking”. Sopra la pedana di vetro si staccano due torri di cui la più alta si ispira alla naga, simbolo della Cambogia e portatrice di buona fortuna, legata ad un’antica leggenda della principessa naga, metà donna metà cobra, genitrice mitica del popolo khmer. Ella viveva in un palazzo di cristallo, proteggendo il popolo con il suo celbre “ombrello”, racconto in seguito ripreso dalle storie che narrano la vita di Buddha. La originale facciata della torre “a scaglie di drago” consente di ottimizzare l’illuminazione naturale, mentre un sistema di ombreggiamento evita il surriscaldamento. Phnom Penh, con circa due milioni di abitanti (ufficiali) è una città in costante crescita. Città, chiamata in passato “perla d’oriente” è rinomata per un mix di architettura: la tradizionale khmer, l’art noveaux francese e infine quella moderna e contemporanea, vantando tra le firme di grido anche Le Corbusier. Sorgendo sulle sponde del fiume Mekong, tra il confluire del Tonle Sap e la diramazione del fiume Tonle Bassac, Phnom Penh è anche un porto fluviale di notevole importanza. A 40 anni dalla caduta del regime di Pol Pot e dei sanguinari Khmer Rossi, Phnom Penh inizia a costruire il proprio futuro, non senza gravi problemi di corruzione e crescita demografica incontrollata, che provocano una conseguente mancanza delle infrastrutture e un aumento dell’inquinamento. Incrociamo le dita augurando buona fortuna alla Cambogia. Allo sbarco ci attende la nostra guida Kin, con cui andiamo a pranzare al ristorante Bopa, un bel ristorante sul fiume dove ci accolgono con il cibo cambogiano, fiori di loto e musica e danza tradizionali. Proseguiamo al albergo Sunway, centralissimo, dove ci aspetta cocktail di benvenuto. Accanto al hotel sorge Wat Phnom, la pagoda sulla collina, costruita nel 1372, che con i suoi 27 m rappresenta la struttura religiosa più alta della città. La leggenda racconta la storia della ricca vedova Penh che trovò un grande albero Koki nel fiume, accompagnato da quattro statue bronzee del Buddha. Per venerarle costruì prima un piccolo santuario su una collina artificiale, che presto diventò un importante luogo sacro dove molte persone venivano a pregare. Nel 1437, il Re Ponhea Yat ingrandì e rialzò ulteriormente la struttura, che in questo modo dominava il suo appena costruito Palazzo reale. Il tempio è stato ricostruito più volte, nel XIX secolo e ancora nel 1926. La pagoda è famosa per i suoi bei giardini, con un’enorme orologio creato dal prato e dalle siepi. In seguito abbiamo in programma la visita dell’affascinante Mercato Centrale, molto pulito e molto ben organizzato. E’ formato da un edificio centrale in stile Art Decò con una cupola enorme e una serie di “ali” dove si trova davvero di tutto, dai gioielli al tessile, dalla tecnologia al cibo, compresi gli immancabili souvenir. L’ala più pittoresca è quella alimentare, dove alcuni imbustano le spezie e cibo secco e altri cucinano le pietanze… la più impressionante è la parte del Wet Market, un termine diventato mondialmente conosciuto per la vicenda del COVID, dove scorgiamo le persone che rincorrono un pesce o un serpente vivo fuggito dal secchio. Per fortuna non abbiamo visto i pipistrelli…. Bellissima e profumatissima la parte in cui si vendono le composizioni floreali: gelsomini, fiori di loto, gigli, rose… I volti segnati dal tempo, mani indaffarate e braccia forti che trasportano, smistano, ordinano, vendono; monaci, donne, bimbi, uomini, tutti che salutano con un sorriso gentile e mani che si congiungono in segno di rispetto… Ci piacerebbe rimanere di più, ma abbiamo poco tempo a disposizione, così dopo un’oretta passata al mercato ci spostiamo verso il complesso del Palazzo Reale con la Pagoda d’Argento. Tra gli edifici del Palazzo spicca la Sala del Trono, un elegantissimo spazio riservato alle cerimonie e agli incontri con personalità di alto rango, con pregiatissimi arredi. Segue la Sala del tesoro, una raccolta di gioielli e di oggetti preziosi appartenuti ai reali cambogiani. Accanto, il Padiglione di Napoleone III, un’imponente struttura in ferro oggi in restauro, offerta in dono dall’imperatore francese al re Norodom nel 1876. La pagoda d’argento – il Preah Keo Wat è il tempio ufficiale dei re della Cambogia, e come tale conserva molti tesori nazionali, tra cui spicca un piccolo Buddha di Smeraldo del XVII secolo, uguale a quello conservato a Bangkok (i due paesi si contendono l’originalità della statua). Affascinante e pregiatissimo il Buddha Maitreya, fuso nel 1906, di 90 kg di oro puro, decorato con 9584 diamanti, di cui il più grande è di 25 carati. Ovviamente, è vietato fotografare. Durante il regno di Norodom Sihanouk, prima dell’epoca segnata dai terribili Khmer rossi, il pavimento era ricoperto con più di 5.000 piastrelle d’argento (da qui il nome), oggi conservate solo in parte, mentre l’esterno è rivestito di marmo bianco italiano. Belli anche gli affreschi nel corridoio del uno dei padiglioni che illustrano la storia di Rama, Sita e Hanuman, narrate nel poema epico Ramayana, uno dei più grandi e più importanti poemi epici dell’umanità. L’insieme degli edifici con dei tetti ornati dalle naga protettrici, è immerso in uno stupendo giardino, piantumato con dei bonsai, fiori esotici e meravigliose palme tra cui ci incuriosisce la palma imperiale, con la sua chioma a forma di ventaglio. A seguire Il Museo nazionale, situato a nord del Palazzo reale e ad est dell’Università reale di belle arti, a cui è legato da un lungo rapporto di collaborazione. Ospita una delle più grandi collezioni mondiali di oggetti d’arte khmer. Si tratta di oltre 14.000 oggetti che comprendono sculture in pietra, ceramiche, bronzi e reperti etnografici, anche preistorici. La maggioranza però appartiene al periodo aureo dell’era angkoriana.
In una delle precedenti visite a Phnom Penh abbiamo fatto la visita a Wat Ounalom, la sede del patriarcato buddhista cambogiano, cove abita il loro capo e una numerosa comunità dei monaci. Fondato nel 1443, il complesso è formato da 44 edifici. Quasi annientato durante il regime di Pol Pot, a ripreso a vivere solo nei tempi recenti. Infatti, al secondo piano dell’edificio principale, una statua commemora Huot Tat, il celebre patriarca buddhista ucciso dai Khmer Rossi. La statua dell’anziano prelato, realizzata nel 1971, fu gettata nel Mekong dai khmer rossi per dimostrare che il buddhismo non aveva più alcun valore.
Abbiamo cercato di ritagliare un po’ di tempo, per poter visitare un luogo molto diverso che testimonia questo periodo terribile della storia cambogiana. È un fuori programma che merita di essere visto, anche se non si tratta di una visita piacevole. Toul Sleng o S-21 è testimonianza dei orrori vissuti sotto il regime di Pol Pot e i Khmer rossi. La nostra guida Kin ci racconta la propria esperienza vissuta nel 1975, quando l’intera Phnom Penh fu svuotata in un solo giorno. Ci parla come lui, allora bambino, venne deportato con la sua famiglia nella campagna, senza poter prendere nulla con sè, con un inganno: Pol Pot chiese a tutti di sgomberare la città per qualche giorno, per sfuggire il nemico. Chi tornava nella città scompariva, chi stava in campagna era tenuto ai lavori forzati. Mentre parla, ricorda la fame e le urla che si sentivano di notte, ricorda familiari e conoscenti scomparsi. Tuol Sleng, o S-21, il cui nome significa collina degli alberi velenosi; la sigla S sta per sala e 21 è il codice del Santébal, la malfamata polizia di sicurezza. Il genocidio cambogiano è uno tra i più spietati della storia. Toul Sleng è solo una nel vasto sistema delle prigioni, che tra il 1975 e il 1979 imprigionò tra 17.000 e 25.000 persone, di maggioranza cambogiani, con soli 7 sopravvissuti. Tra essi c’erano anche molti khmer rossi e alcuni politici di alto grado accusati di tradimento; c’erano inoltre vietnamiti, laotiani, indiani, pakistani e perfino qualche occidentale. Pol Pot, il cui nome deriva da Politique potentiel, fu il leader dei khmer rossi. Nel triennio a partire dal “anno zero” cambogiano promosse un’economia agraria ultra-comunista, eliminando tutti coloro che considerava nemici: politici, medici, ingegneri, insegnanti, artisti… Cancellò tutti valori – arte e artigianato, scienze, istruzione, religione, famiglia… Abolì tutte le istituzioni: proprietà privata, negozi, scuole, denaro, poste … Annientò chiunque avesse un’educazione e un po’ di cultura, uccise tutti “inutili”, disabili, malati di mente, anziani che non potevano lavorare… I familiari dei prigionieri di solito erano portati verso un altro luogo di orrore, il campo di sterminio fuori città, Choueng Ek. Prima di diventare prigione la S-21 era un liceo. Cinque edifici della scuola furono recintati con filo spinato elettrificato, le classi trasformate in celle e stanze di tortura, con le finestre sbarrate con assi di ferro e filo spinato. Come già detto, a tale inferno sopravvissero solo 7 persono e solo perché le loro capacità erano indispensabili ai carcerieri. I capo carcere erano due: Nath e Deuch: il secondo fece uccidere il primo. La prigione aveva a disposizione 1.720 persone di cui 300 era personale d’ufficio e addetti ai interrogatori, il resto serviva per le mansioni generiche. Tra quelli moltissimi erano ragazzini tra 10 e 15 anni, strappati alle famiglie dei prigionieri stessi, e poi resi sadici da un addestramento particolare, pronti a torturare anche propri genitori e parenti. I prigionieri venivano istruiti su dieci ferree regole da seguire nei interrogatori-torture: venivano intimati di non tergiversare e inventare scuse, di rispondere subito, di non piangere sotto l’elettroshock o marcatura con ferro incandescente… per ogni disobbedienza, anche minima, venivano frustati con fruste elettriche… sono torture difficili anche solo da immaginare … Ovviamente, i prigionieri erano innocenti e le confessioni erano prodotte solo sotto tortura. Toul Sleng è stato inserito nel 2009 nell’Elenco delle Memorie del mondo da parte dell’UNESCO. Questa volta non faccio la visita, sono stata due volte in questo luogo così sconvolgente che preferisco rimanere fuori con qualcuno che non si sentiva di entrare. Mi travolge un malessere al solo pensiero di cosa è successo in questa ex-scuola. Penso che è molto importante far capire alla gente che visita questo bellissimo paese anche la parte oscura della loro storia, quella che capitò ai cambogiani solo pochi decenni fa. Noi rimasti fuori giriamo questo centralissimo e tranquillo quartiere, ci sembra impossibile che nel centro della città potesse esistere un luogo del genere. Vicino all’ingresso del museo, scorgiamo un piccolo dopo scuola, situato in un garage. I bambini e i loro due maestri ci accolgono con sorrisi e mani giunte a petto, P. dalla sua borsetta del tipo “Mary Poppins” estrae le matite colorate per regalarle ai bambini, e loro per ringraziare cantano. Aspettiamo che il resto del gruppo esce, e rientriamo in bus. Regna un silenzio cupo e pesante … questo luogo fa stare veramente male. La strada costeggia il Monumento dell’indipendenza, del 1958, anno in cui la Cambogia si staccò dalla Francia. In seguito attraversa i viali pieni della vita, e mentre in fretta cala calda notte tropicale, guardiamo il cielo con le stelle che brillano per tutta la umanità … sembra che non mostrino pietà alcuna per questo mare di gente povera e malnutrita … Torniamo in nostro hotel dove ci aspetta un’ottima cena. Purtroppo, il personale del ristorante ha preparato due grandi tavoli su cui mancano due posti; G. e C. quindi fanno la “cenetta romantica” a lume di candela; vado a “disturbare”, tanto per scambiare due-tre parole anche con loro…
XX: il primo giorno al sito di Angkor: la variante con volo da Phnom Penh a Siem Reap. Il volo è un po’ in ritardo, ci siamo già abituati. All’imbarco ci fanno un po’ di storie per il peso dei bagagli in stiva, soprattutto a me e a M. che siamo rimaste le ultime: superavano i 23 kg, previsti per i voli internazionali (per gli intercontinentali la franchigia è di 30kg, e non ce ne siamo ricordate). Alla fine riusciamo a sistemare tutto. Arrivando a Siem Reap dobbiamo fare i visti; i funzionari non sono particolarmente gentili; nonostante il cambio euro/dollaro ufficiale, fanno pagare di più se paghiamo in euro. Così scopriamo subito uno dei problemi più grossi di questo bellissimo paese: la corruzione. Incontriamo la nostra guida, Saveth, (in altri tour ne avevo alcune altre, Preksa e Kosal) che ci regala le “krama”, tipiche sciarpe cambogiane. La faccenda dei visti era lunga, sono le undici passate. I bagagli vanno al albergo con un pulmino, noi ci sbrighiamo a fare i pass per l’ingresso al sito, e finalmente entriamo nel parco archeologico. Nel corso del viaggio in Vietnam M. ha fatto un breve corso fotografico a S. che per questo viaggio si è attrezzato con una macchina nuova. Sono pronte tutte le macchine fotografiche che non vedono l’ora di iniziare a lavorare, come se l’enorme lavoro già fatto nel Vietnam non fosse sufficiente. … R. invece farà dei filmati; A., la nostra storica fotografa quest’anno ha “abbandonato” la macchina, passando al più comodo cellulare, che le permette di inoltrare le foto in tempo reale. Così potrà condividere tutto con sua sorela che doveva partire con noi, ma ha dovuto rinunciare al ultimo momento causa forza maggiore. Per fortuna abbiamo una buona assicurazione … La maggioranza dei templi più noti è concentrata in un’area di circa 15 x 6,5 kmqsituata al nord di Siem Reap, ma l’area definibile come Angkor è molto più vasta: il Parco Archeologico si estende su 400 kmq; “Greater Angkor Project” di Sidney ha evidenziato un’area urbana ancora maggiore di oltre 1000 kmq. Essa, intervallata da campi di riso ospitava centinaia di migliaia di abitanti in un’epoca in cui le più grandi città europee arrivavano a qualche decina di migliaia. Sono circa ottanta le costruzioni principali visitabili, erette in mattoni, laterite e arenaria, su un totale di oltre un migliaio: erano nascoste nella vegetazione fino agli anni ’50 del XIX sec, quando i francesi iniziarono a divulgare il mito della città perduta nella giungla che affascinò generazioni di europei. Sotto la dominazione francese venne intrapreso lo studio e il restauro della regione che faceva parte del Regno di Siam; fu restituita alla Cambogia nel 1907. La soprintendenza alla conservazione di Angkor venne assegnata all’EFEO, e già nel 1920 furono istituiti, grazie a G. Groslier il Museo Nazionale della Cambogia e il Parco archeologico di Angkor. Il padre degli scavi e dei restauri fu Henri Marchal, che utilizzò per primo il metodo dell’anastilosi: seguirono G. Trouvè e M. Glaize, poi tutto venne interrotto per la II guerra mondiale. Proseguirono J. Laur e B. Ph. Groslier, ma la guerra civile dal 1972 fermò tutto e il sito venne minato dai khmer rossi. Dopo il ritiro dei vietnamiti del 1989, i lavori ripresero e il sito due anni dopo divenne un luogo tutelato dall’UNESCO, che si unisce all’EFEO, al team giapponese, al World Monuments Fund, al German Apsara Conservation Project e tanti altri organismi internazionali che si adoperarnono per salvare e proteggere questa meraviglia. Lo stato cambogiano nel 1995 istituì il progetto APSARA: l’acronimo del “Authority for the Protection of the Site of Ancient Region of Angkor” è identico al nome delle danzatrici celesti immortalate sui bassorilievi del parco archeologico. Chi furono i costruttori, cosa fecero, come scomparvero… ci sono tante teorie, racconterò solo qualche curiosità. I Khmer, secondo la leggenda, sono discendenti del mitico asceta indiano Kambu. Si tratta del principe persiano Cambise, il figlio perduto di Ciro il grande che fuggì in preda alla follia verso l’est, trovando la pace in un paese bellissimo e ricco. In questo paese sposò la principessa Soma, sovrana dal popolo Naga, meta cobra, metà donna. Dopo il periodo Chenla, sovrani geniali e bellicosi che regnarono più a sud, nella zona di Kompong Thom, la capitale si spostò nella fertile piana di Angkor. La nuova dinastia realizzò ad Angkor un’incredibile rete idraulica articolata in bacini, canali e risaie, che non solo assicurò il sostentamento a oltre un milione di sudditi, ma permise l’accumulo di un surplus volto a finanziare innumerevoli costruzioni. Nacque così una liquida scacchiera costellata di templi, palazzi in arenaria e legno, e capanne in bambù; brulicante di mercati, carri, piroghe, animali e gente. Perché scomparvero? Troppa ricchezza e declino morale, cambio climatico con scarsità di pioggia, lotte intestine, cambio di fede religiosa…non lo sappiamo ancora.
Potrei scrivere un trattato, ma lo spazio non lo consente. Siamo suddivisi in due pullmini e la nostra visita inizia con Angkor Thom, il cui nome significa semplicemente “la grande città”, chiamata dai contemporanei Yasodarapura. Fu fondata nel tardo dodicesimo secolo dal re Jayavarman VII, vincitore del popolo Cham. Una via rialzata attraversa il fossato in corrispondenza ad ogni torre d’ingresso, (c’e ne sono cinque ingressi in tutto), formando un ponte dove il serpente-naga è tenuto da 54 personaggi, da un lato deva, demoni buoni, dall’altro ashura, quelli malvagi. Il canale che circonda la città è stupendo, con gli infiniti riflessi della vegetazione e dell’architettura… All’ingresso della città ci accolgono le torri alte 23 metri con i volti misteriosi. Rappresentano il re in persona, o il Bodhisattva Lokesvara, il Buddha misericordioso; o sono semplicemente guardiani della città? Forse una combinazione di tutti tre … Entriamo a piedi e finalmente appare il tempio di Bayon, il centro esatto della città, con le sue facce sorridenti e enigmatiche, l’unico tra i templi del sito ad essere costruito come un tempio buddhista Mahayana. Saveth ci spiega questo passaggio dall’induismo al buddhismo, in cui si creò una società con la religione sincretica. Successivamente il tempio fu convertito in tempio indù, poi ridiventò buddhista, ma della corrente Theravada, e alla fine fu lasciato in balia della giungla, fino alla riscoperta novecentesca. Questo tempio non ha mura né fossati propri che lo circondano: infatti, sono quelli della Angkor Thom stessa. Pensato così, Angkor Thom è la città-tempio, con Bayon come tempio centrale: come tale copre un’area di nove kmq ed è molto più grande di Angkor Wat, che occupa soli due kmq di superficie. Dentro il tempio ci sono due gallerie al pianterreno ed un terrazzo più in alto con la propria galleria. La galleria esterna mostra una serie di scene in bassorilievo che riguardano le conquiste militari, ma anche quelle della vita quotidiana. È una fonte inesauribile per la conoscenza di usi e costumi khmer, molti immutati fino ai tempi nostri. I soggetti sono: l’armata Khmer seguita dai carri con le provvigioni; scene del tempio; la battaglia sul Tonle Sap tra gli Khmer e i Champa con l’esibizione navale e scene di palazzo, le navi Cham, la festa della vittoria e la parata militare, tutto intervallato con curiosissime scene domestiche che riguardano la cucina, l’allevamento, il commercio e le attività quotidiane di ogni tipo … è rappresentato perfino un parto. In cortile si trovano due biblioteche, parte di ogni tempio khmer, che servivano per conservare libri e oggetti sacri. La galleria interna è rialzata e i suoi bassorilievi, aggiunti dal figlio di Jajavarman VII appartengono al mondo iconografico indù. Raffigurano le scene della mitologia, non decifrate in tutto: più chiari sono la costruzione del tempio di Vishnu e la burrificazione del Mare di Latte. La galleria interna è quasi completamente occupata dal terrazzo, dove ci troviamo circondati dalle torri a forma di viso, ciascuna con due, tre o quattro volti giganteschi, tutti con il sorriso indecifrabile. L’esatto numero delle torri non si conosce; si suppone che ne esistessero 49 di cui oggi ne restano solo 37, con circa 200 volti. Uscendo da Bayon, prendiamo i nostri coaster bus. Viaggiando, scorgiamo i resti degli edifici che appartenevano al complesso del Palazzo reale. Scendiamo. Ad ovest della strada si vede la punta della piramide del tempio di Phimeanakas, la Terrazza degli Elefanti, la Terrazza del Re Lebbroso; invece ad est troviamo le torri del Prasat Suor Prat, che in khmer significa “le torri dei danzatori sulla corda”, un romantico nome derivante dalla credenza locale che suppone che venissero utilizzate per sostenere un filo per ospitare le acrobazie durante le feste reali. In realtà, il loro ruolo vero non è ancora stato scoperto. Secondo una leggenda, nel tempio di Phimeanakas viveva una principessa naga, che durante il giorno era serpente con nove teste, ma di sera diventava una bellissima donna che aspettava il re, suo sposo. Egli doveva salire molti scalini della ripida piramide per giacere con lei, altrimenti erano guai per il destino cambogiano. Concludiamo unanime che il re doveva avere un’energia sovrumana essendo la piramide alta oltre 40 m. Il Palazzo reale, costruito in legno non c’è più. E’ rimasta la Terrazza del re lebbroso, che deve il nome alla scoperta della statua del dio della morte Yama, coperta di licheni che ricordava una persona malata di lebbra; in più il sito probabilmente serviva come crematorio reale. Esiste anche un’altra leggenda che narra che Jayavarman VII era malato di lebbra, e che di tale malatia morì. La Terrazza degli Elefanti, lunga più di 300 metri, costituisce il lato ovest della Piazza Reale. Fu costruita da Jayavarman VII e dal suo figlio tra il XII e il XIII secolo. E’ adorna di numerose sculture di elefanti scolpite su un imponente basamento alto tre metri. Da essa si proiettano verso la piazza cinque scalinate, con le balaustre sormontate dagli uccelli garuda e dai leoni. Proseguendo, facciamo una breve sosta al tempio di East Mebon, che sorge sulla collina artificiale nel centro del Baray orientale, bacino d’acqua oggi prosciugato. La base del tempio misura 126 x 121 m, ed è sollevata quasi 5 m dal fondo del baray prosciugato, ai tempi un immenso lago artificiale. Ovviamente, allora il tempio con nove torri era raggiungibile solo con le barche: possiamo solo immaginare l’impatto. Per costruirlo vennero usati tutti i materiali caratteristici dell’architettura khmer: mattoni, laterite e arenaria. Sulle architravi, sugli stipiti e sulle porte stesse delle torri sono scolpite diverse divinità, con le fattezze dei genitori del re. Agli angoli dei recinti ci sono statue di elefanti alte due metri, invece la scalinata che porta alla torre centrale è abbellita da leoni guardiani. Segue la breve sosta presso un altro tempio-montagna dalle imperiose proporzioni, situato anch’esso vicino al Baray orientale, la più antica riserva d’acqua d’Angkor. Si tratta del curioso tempio-monastero Preah Rup, “gemello” del tempio di East Mebon, il cui nome significa girare il corpo, confermando la credenza che il tempio servisse per le cerimonie di cremazioni: in esso il corpo del defunto veniva girato verso i punti cardinali, secondo vari riti funebri prescritti dai rituali hindù. Costruito in mattone, laterite e arenaria come tempio di stato del re Rajendravarman nel 961, fu dedicato a Shiva. Non abbiamo tempo di visitare tutto, un po’ per il ritardo del volo, un po’ perché diventa presto buio; quindi proseguiamo verso la location del set di Thomb Rider con Angeline Jolie nei panni di Lara Croft. E’ il tempio delle radici che divorano la pietra, il celebre Ta Prohm. Quando nel ventesimo secolo cominciarono gli sforzi per la conservazione ed il restauro, Ta Prohm fu appositamente scelto dall’ EFEO per essere lasciato così, per “concessione al gusto del pittoresco”. Furono fatti sforzi per stabilizzare le rovine e permetterne l’accesso ai visitatori, affinché si mantenessero sia la condizione di apparente trascuratezza sia le condizioni di sicurezza. Ta Prohm fu uno dei primi templi iniziati da Jayavarman VII nel suo grandioso programma edilizio. Il nome odierno significa “il vecchio Brahma”, ma il nome originario, Rajavihara significava “tempio reale” poiché era dedicato alla famiglia del re: la struttura principale con Prajnaparamita onorava la sua madre, mentre i due templi secondari nella terza recinzione erano dedicati al suo maestro e al suo fratello. Il tempio è a pianta piatta, con tre recinti, ognuno con delle gallerie coperte. Gli alberi che crescono sopra le rovine sono la caratteristica che contraddistingue il sito: alcuni sono dei ficus strangolatori, mentre altri appartengono alle specie Terameles nudiflora. L’impatto è davvero singolare, con le radici enormi che abbracciano la pietra, con le sculture che emergono completamente incorniciate dalla corteccia dei alberi secolari, con le pietre enormi che stanno in piedi per puro miracolo, con le grida delle scimmie e il canto degli uccelli della foresta… Sto sorvegliando a vista A., E. e P. che spesso rimangono ultimi per cercare di fotografare i monumenti senza un po’ esagerati turisti, soprattutto cinesi. qui tutti fanno gara per fare la foto più curiosa e più originale. Torniamo in albergo per rinfrescarci, poi concludiamo la giornata con la cena-spettacolo di danza apsara presso il ristorante Cristal Palace. Apsara è uno spirito femminile delle nubi, del cielo e dell’acqua nelle mitologie indù, da “ap” acqua e “sar” muoversi. Durante il regime di Khmer Rossi furono eliminate tutte le arti e oltre 90% degli artisti, simboli di una società arcaica. Quando il nuovo Ministero della Cultura iniziò a cercarli, nessuno tra i pocchi sopravissuti osava rivelarsi. Dopo anni di terrore, fu difficile trovare i superstiti: durante il primo spettacolo post-regime, nel 1988 a Phnom Penh piansero tutti: gli artisti e il pubblico. Una risurrezione vera, perché si ripartiva dal nulla. A Pol Pot non sopravvissero né testi, né strumenti musicali, né coreografie, né costumi, né maschere. Accompagnate da un solo tamburo e vestite semplicemente, la “apsaras” danzavano la memoria pura e intensa. Dopo, il maestro che allestì l’evento disse: “Per creare uno spettacolo non basta musica e movimento, è il cuore che conta”. La danza tradizionale è molto difficile: ci vogliono anni per imparare 1165 gesti che sono l’alfabeto base. Durante l’apprendimento i maestri piegano le bambine aspiranti modellando le loro mani e i loro corpi come se fossero di argilla. Il complesso dei musicisti, pinpeat, composto da indefinibili strumenti a percussione, carillons di piccoli gong, xilofoni, tamburi orizzontali samphor, è considerato il veicolo spirituale della danza. La melodia scorre lungo le scale musicali diverse creando effetti sconcertanti per gli occidentali: sembra acqua di sorgente, vento fra le fronde, cinguettio degli uccelli. Auguste Rodin, in occasione dell’Apsara tournee francese del 1907 scrisse, ammaliato: “Ci hanno mostrato l’essenza dell’antichità classica. E’ impossibile che la natura umana raggiungesse una tale perfezione.” Quando le danzatrici lasciarono la Francia aggiunse: “E’ come se ne fosse andata la bellezza del mondo”. Stasera anche a noi è capitata una piccola porzione di questa bellezza. Per concludere in modo meno poetico, una buona parte di noi si reca al celeberrimo Mercato notturno di Siem Reap. A. cerca regali per nipotini, S e M per le nuore; e tutti quanti curiosiamo un po’ tra le spezie, magliette, calamite, pesciolini che fanno pedicure… Ritorno in hotel è rigorosamente in tuk-tuk, un mezzo di trasporto che si deve provare visitando la Cambogia.
XX: il secondo giorno ad Angkor. Alle otto, dopo la prima colazione ci siamo tutti. Trovo G. e C. con il guardaroba rinnovato: hanno indossato le bellissime camicie bianche cambogiane !!! Ci spostiamo circa 30 km più a nord della città di Siem Reap, dove sorge una costruzione davvero speciale, un complesso che vanta le più raffinate e più pregiate decorazioni di tutta l’arte angkoriana: il Banteay Srei, la cittadella delle donne. Attraverso un gopura si percorre la via processionale; si arriva agli edifici disposti dentro la triplice cinta, con il tempio principale dedicato al Shiva. Fu costruito in arenaria rosata in soli sette anni, dal 960 al 967 per il coltissimo e ricchissimo consigliere reale Jajnavaraha. Siamo immersi in una bellezza travolgente: frontoni, porte, colonnine intagliati con superba maestria: tanto è fine l’arte del intaglio che non sembra pietra. Un pizzo di pietra copre le pareti intere, riportando dei motivi vegetali, scolpendo animali reali e fantastici, narrando le vicende delle divinità e dei personaggi mitologici che farebbero gola alla fantasia dei più illustri scrittori di fiabe. Il grande respiro narrativo, il dinamismo della composizione plastica e l’espressività psicologica pongono i bassorilievi di Banteay Srei al vertice della classifica mondiale dell’intaglio. Siamo nel cuore di una giungla immensa e misteriosa, i tetti dalle forme ccomplicate traffigono le nuvole, altari vuoti sacrificano qualcosa d’invisibile alle divinità oramai dimenticate, e i ventagli delle palme osservano tutto, impassibili e solenni…. Proseguiamo verso un altro capolavoro, uscendo da circuito “turistico”. Attraversiamo il villaggio Tbaeng. Siamo solo noi a visitare Il Banteay Samre, cittadella della gente di Samré, una tribù che viveva nella zona e il loro tempio situato subito ad est del Baray orientale. Sebbene non sia stata rinvenuta la stele con l’anno della fondazione, stilisticamente appartiene agli inizi del XII secolo, all’epoca di Suryavarman II. Ben conservato e con decorazioni dei frontoni stupende, regala un’atmosfera unica. È associato alla leggenda del re cetriolo. Un contadino che coltivava gustosi cetrioli presentò alcuni al re, che – per assicurarsi il possesso esclusivo – ordinò al contadino di uccidere chiunque cercasse di rubarli. Un giorno, rimasto senza, il re in persona si recò nel campo a prenderne alcuni. Dal momento che era buio, il contadino non lo riconobbe e lo uccise. Poiché il re non aveva figli, fu deciso che un elefante reale indicherà chi sarà il prossimo re. Furono convocati tutti i sudditi, ma l’animale si inginocchiò davanti al contadino che coltivava i cetrioli. La corte però non era contenta della scelta e iniziò a mancare il rispetto al re. Così il contadino con la sua tribù decise di trasferirsi dal palazzo reale al tempio di Banteay Samre, continuando a coltivare nelle vicinanze i suoi squisiti cetrioli. Dopo la visita della cittadella di Samre torniamo verso Angkor e ci fermiamo per il pranzo libero in un ristorante vicino ad Angkor Wat. Alcuni mangiano, altri fanno due passi, altri fanno ancora qualche compera essendo le bancarelle ovunque: io trovo un paio di pantaloni, un modello che “manca” nel mio guardaroba esotico. G. fotografa una bancarella alimentare molto curiosa, che vende i serpenti interi avvolti su se stessi, infilati su un spiedino e cotti alla brace. Non mi ispirano per niente … preferisco girare tra le bancarelle con i gioielli, intrecciati con le erbe essicate dai colori diversi…
Dopo il pranzo ci aspetta Angkor Wat, il più celebre tempio del sito, posto sulla bandiera cambogiana. Nel 2015, anno record, il sito di Angkor Wat fu visitato da 5 milioni di persone, nel 2017 e 2018 i numeri superarono 2,5 milioni … Entriamo dalla parte ovest, attraversando un ponte galleggiante che sostituisce il ponte originale, oggi in restauro. Poi oltrepassiamo gopura occidentale, arrivando al cuore della meraviglia, la terrazza d’onore. Proseguiamo attraversando la balaustra incoronata con le naga che ci portano verso il tempio: alte palme svettano tra le magnifiche torri che si specchiano nei laghetti con alcune ninfee rosa, da una e l’altra parte sorgono le grandiose biblioteche, e infine entriamo per ammirare la galleria del Tempio del primo livello. La pianta di Angkor Wat è quasi quadrata: 1,5 km E-W per 1,3 km da N-S. In origine racchiudeva anche la città costruita in materiali deperibili, un fossato e una porzione di terra libera circondata da un muro perimetrale, con il compito di accogliere le piogge e stabilizzare la falda sottostante. In ogni punto cardinale ci sono dei elaborati ingressi – gopura; la più grande è quella a ovest con tre torri. Il tempio a pianta cinqconx si eleva sopra un terrazzamento rialzato, ed è composto da tre gallerie che si sviluppano gradualmente verso la torre centrale. Due gallerie interne hanno delle torri agli angoli, invece la esterna presenta dei padiglioni. La galleria più interna, detta bakan è un quadrato di 60 m di lato, il cui cortile conteneva l’acqua che rappresentava l’oceano primordiale che scorre intorno alla montagna sacra Meru. Antonio da Magdalena, un missionario portoghese già nel 1586 scriveva: “E’ una costruzione così straordinaria che è impossibile descriverla con una penna, poiché non c’è un edificio simile al mondo. Le torri e le decorazioni rappresentano quanto di più raffinato che il genio umano possa immaginare.” Divenne conosciuto nel occidente solo alla metà del XIX secolo, grazie a note e disegni di Henri Mouhot, che scrisse: “…è un rivale per tempio di Salomone, ed è eretto da qualche antico Michelangelo… E’ più grandioso di qualsiasi cosa ci abbiano lasciato i greci e i romani, e contrasta tristemente con la situazione selvaggia in cui versa ora la nazione.” Non credette ne lui ne nessun’altro che i “arretrati” khmer avessero potuto costruirlo. Gli elementi architettonici sono originalissimi: le torri ogivali a forma di bocciolo di loto, semi-gallerie che ampliano i corridoi, terrazze cruciformi. La maggior parte della costruzione visibile è in arenaria; la laterite fu usata per le parti strutturali. Tanto è stato perso a causa dei saccheggi e del tempo: le parti in legno, gli stucchi dorati sulle torri, i colori delle sculture, e, ovviamente, le suppellettili in oro. I tipici elementi decorativi sono devata e apsaras che abbondano sulle pareti a partire dal secondo livello. I motivi floreali sono abbastanza statici e meno pregevoli dei periodi precedenti, invece i muri interni del primo livello sono adorni di ottimi bassorilievi con scene dai poemi Ramayana e Mahabharata, con una processione di re costruttore, Suryavarman II, e infine con i 32 inferni e i 37 paradisi della mitologia indù. Una delle scene più famose e la zangolatura del oceano del latte, con 92 ashura e 88 deva che tirano il serpente Vasuki. Proseguiamo verso il luogo più sacro del tempio, la cella: tre gruppi di ripidissimi scalini su ciascun lato conducono in alto, verso la torre centrale, alta 43 m ovvero 65 metri dal livello terra. Dal alto si gode una splendida vista sulle strutture sottostanti. Quando usciamo dalla gopura est, scendono dal cielo due-tre gocce di pioggia, sembra una benedizione. Ancora una nota sulle apsara, che mi incuriosiscono molto. Per molti anni gli studiosi spiegavano le figure di apsara come presenze accessorie e mitologiche, ma sembra che queste donne avessero un ruolo reale, molto più profondo ed importante. Non si sa quali valori spirituali e governativi rappresentano. Le figure femminili – devata e apsara – di Angkor Wat sono state sottoposte aglii avanzatissimi esami di riconoscimento biometrico che ha rivelato una sorpresa: unicità dei lineamenti, varietà di volti e delle posizioni del corpo e delle mani, appartenenza a varie etnie e diverse età, differenza dei gioielli, abiti e acconciature. Tenendo in conto l’irrepetibilità delle 65 caratteristiche oggetto dell’indagine, si calcola un totale di 120.000 differenze presenti su 1796 ritratti del tempio. Zhou Daguan, diplomatico cinese del XIII secolo scrisse dell’importanza di apsaras nella conduzione degli affari, sottolineando il gran numero di presenze femminili nel palazzo, ma non rispose al perché i khmer popolarono i templi con così numerosi e così precisi ritratti. Oltre ad Angkor Wat, i rilievi con le apsara si trovano in tutti i templi e in tutte le regge, sicuramente legate sia al sacro che al profano. Sono sacerdotesse o donne d’affari? Sante-ascete o cortigiane-prostitute? Raffinate danzatrici o semplici serve? Analfabete o letterate? Capire chi sono e che ruolo avevano è un rompicapo di tanti studiosi dell’arte khmer, e rimarra tale per molto tempo. Segue la breve sosta presso un altro tempio-montagna dalle imperiose proporzioni, situato anch’essp vicino al Baray orientale, la più antica riserva d’acqua d’Angkor. Concludiamo la giornata con Prasat Kravan, un piccolo tempio vishnuita della prima metà del X secolo, costituito da cinque torri allineate in mattoni rossi. Il suo nome significa tempio del cardamomo. Al interno troviamo interessanti bassorilievi, scolpiti direttamente in mattoni, una tecnica comune per i templi Cham, ma unica nei monumenti Khmer. Nella torre centrale si trova la rappresentazione del mito di Vishnu e Bali. La leggenda narra che Vishnu, incarnandosi come nano nell’avatar Vamana, chiese al re dei demoni Bali di compiere tre passi per appropriarsi di ciò che riesce a calpestare. Bali accettò, e Vishnù si ritrasformo in un gigante riprendendo il mondo intero: l’aria, l’acqua e la terra con tre enormi balzi, arrabbiando tanto il demonio. Nella torre nord è scolpita Laksmi, affiancata da Shiva e Vishnu proponendosi come la dea che trascende il dualismo tra shivaiti e vishnuiti. Oggi a Prasat Kravan preparano un evento: tutto il tempio viene addobbato in pompa magna con lumini, mazzi di fiori di loto, e ovviamente tavoli e sedie rivestiti con candidi tessuti damascati. Quando saliamo in pulmino, la nostra guida ci propone un delizioso extra: sembra che abbiamo ancora un’mezzoretta prima del tramonto. Quindi ci rechiamo a visitare un tempio molto particolare, Neak Pean, costruito sul isolotto di un lago. Il nome significa “Il serpente intrecciato“, dovuto al Naga situato alla base del tempio. Secondo alcuni studiosi il complesso è stato costruito per ricordare il sacro lago Anayatapta, che si trovava sul monte Meru, la cui acqua aveva poteri curativi. I khmer ritenevano che anche l’acqua che circonda Neak Pean fosse curativa, e sulle sue sponde esponevano i malati, costruendo una specie di ospedale. E’ del XII secolo, voluto da Jayavarman VII, ed è stata progettato come un punto d’incontro dei quattro elementi, terra, aria, fuoco ed acqua. Costruire ospedali era un impegno tanto caro al grande sovrano, così che alcuni studiosi rittengono che può essere interprettato come conferma della sua mallatia e leggenda del re lebbroso. Per visitare questo tempio si attraversa un ponte in legno che si trova sopra un incantevole laghetto. Su di esso si esibiscono le orchestrine composte da persone mutilate, vittime delle mine antiuomo, che suoano strugenti melodie con strumenti tradizionali. Tra una e l’altra visita siamo sempre seguiti da qualche commerciante ambulante, spesso ragazzine che dicono che sono state in scuola durante la mattinata: qualcosa sempre finisce nei nostri zaini. Si fa buio, e dobbiamo rientrare nel nostro hotel … i colori del tramonto sono indimenticabili. Quando e quanto è possibile, cerchiamo sempre di includere qualcosa non previsto dal programma….
Prima di concludere, un paio di digressioni sulle religioni, senza le quali è difficile capire la complicata architettura del sito. Buddhismo, originato dagli insegnamenti di principe, filosofo e asceta indiano Siddharta Gautama – Buddha storico, Sakyamuni (566 a.C – 486 a.C.) – comunemente si compendia nelle dottrine fondate sulle quattro nobili verità, ossia verità del dolore, verità dell’origine del dolore, verità della cessazione del dolore e verità della via che porta alla cessazione del dolore. Le differenze fra le due scuole – Theravada e Mahayana non sono relative tanto alle tecniche meditative, quanto ai fini da raggiungere. Nella scuola Hinayana o “del piccolo veicolo”, più propriamente detta Theravada, il fine è l’Arhat, l’essere che ha estirpato il desiderio, e di conseguenza il Nirvana rappresenta l’estinzione dei cicli di nascita e morte. Le tecniche meditative mirano alla padronanza della mente; il desiderio è negativo in se stesso, e la condizione di Buddha è un fatto esclusivo riservato al Buddha originario, Siddharta. La scuola Theravada è nata dal buddhismo dei Nikkaya nei primi secoli dopo la morte del Sakyamuni, ed è più conservatrice. E’ detta degli Anziani ed è diffusa soprattutto nel sud-est asiatico, in Cambogia, Laos, Thailandia, Birmania e Sri Lanka. La tradizione Mahayana si è sviluppata con l’accoglimento degli insegnamenti del Prajnaparamita sutra e del Sutra del Loto. Buona parte del Buddhismo indiano a partire dal II secolo è rappresentato o influenzato da questa corrente, e rappresenta quasi totalità delle correnti presenti nel Estremo Oriente (Madhyamaka, Cittamatra, Vajrayana, Buddhismo tantrico, buddhismo Zen). Buddhismo Mahayana o “del grande veicolo”, mira allo stato di Bodhisattva, il quale, armato di saggezza e compassione si attiva per la felicità altrui e decide di rinascere per condividere la gioia con gli altri esseri senzienti. Nel Mahayana la condizione di Buddha è insita in ognuno di noi; Shakyamuni è visto come manifestazione transitoria del Buddha/essenza. Il Nirvana non è annullamento del desiderio, ma è il viverlo in maniera saggia ed altruistica. E’ praticato in India, Cina, Giappone, Tibet, Mongolia, Vietnam ed in occidente. E’ una “spiegazione” dovuta: sia in Vietnam che in Cambogia abbiamo incontrato tante pagode (e anche tanta gente) appartenenti a questa religione e a queste due scuole buddhiste.
Seguono due-tre parole sul induismo, quasi scomparso dalla Cambogia, ma importantissimo in passato. Indusimo è una delle principali religioni del mondo, e come tale è considerata religione archetipo o Ur-religion. Preferisce autodefinirsi con la Sanatana Dharma, la norma eterna. Si può considerare una serie di correnti devozionali differenti tra loro secondo la interpretazione della tradizione, più che una religione unitaria. L’induismo trae la origine dalla religione vedica, decisamente politeistica e dai testi di RgVeda che quasi si contradicono nel loro politeismo: Dio è uno, ma i saggi lo chiamano con molti nomi. Le cerimonie importanti del ciclo della vita, come il matrimonio e i funerali, hanno nell’induismo la stessa struttura vedica, nonostante che oggi il vedismo si ritenga estinto. Nel VI secolo a.C. nei circoli brahmanici furono adottate tradizioni teistiche concentrate su due divinità (deva): Vishnu e Śhiva, che diventarono le divinità assolute dalle rispettive tradizioni, invece l’emanazione del cosmo spetta a Brahmā. Le Scritture sacre si dividono in due macro insiemi: Shruti, la rivelazione divina e Smrti, i testi compilati dagli uomini. Tra questi testi sono più celebri il Ramayana e il Mahabharata, le due grandi epopee sacre, poi i Purana con i miti, simboli, aspetti iconografici, celebrazioni e riti; i Brahma-sutra, i trattati normativi e dottrinali, Shastra; i Tantra e gli Agama dedicati alle dottrine delle diverse tradizioni. La società indù è divisa in kaste: brāhmana, con funzioni sacerdotali e religiose, vestiti di bianco; gli ksatriya con funzioni guerriere o politico-amministrative; i vaiśya con le attività agricole e commerciali; e gli ultimi, gli śūdra, a cui sono riservati lavori servili; spesso si trattava di prigionieri di guerra e gli aborigeni resi schiavi dai conquistatori indoariani. Le divinità si venerano sotto le varie forme, con un pantheon infinito di dei, semidei e altri esseri sacri. Nella sua forma moderna induismo si basa su tre grandi tradizioni, shivaismo, vishnuismo e shaktismo, con Shiva, Vishnu e Shakti (o Devi) considerati come la divinità supreme. L’induismo è diffuso soprattutto in India, dove lo pratica la quasi totalità della popolazione.
Per congedarsi da Angkor un pensiero che credo possa essere condiviso da tutte le persone con cui ho viaggiato in Cambogia. Esistono pochi luoghi sulla superficie terrestre che possono vantare una bellezza così struggente: un cielo immenso solcato dalle nubi eteree; le torri a boccioli di loto specchiate nell’acqua; la stirpe arborea che divora la pietra, annientando ciò che fu un spazio umano e creandone uno nuovo, irrazionale, appartenente al sogno. Qui l’arenaria viene lavorata in modo che sembra un tessuto o una pasta malleabile, dorata dal sole; immense risaie e slanciati palmeti tracciano le orizzontali e verticali di una geometria naturale e semplice. Poi ci sono sorrisi della gente, ci sono bimbi, donne e uomini che giocano, vendono o pregano, simili a quell immortalati nei ritratti che adornano le architravi e i frontoni dei templi. Angkor è essenza stessa di un fascino surreale e ineffabile, è un insieme magico, un mondo se stante, che bisogna vedere per credere che esista. Nel mio animo pensarlo provoca un sentimento di nostalgia, mi capita di sognarlo, e quindi mi viene il desiderio di tornare. Si è formata nel mio cuore un’immagine fatta non solo di pietre e intagli, di acqua, cielo e alberi ma anche dei volti della gente di cui avi, con tanta devozione e con tanto senso estetico crearono non solo la città santa più vasta del mondo, ma anche senza dubbio alcuno, una tra le più belle e più particolari città mai esistite, un luogo a cui assegnarono un nome semplicissimo : LA CITTA’.
XX Il fiume-lago Tonle Sap. A circa 10 chilometri da Siem Reap inizia il lago Tonle Sap, “grande fiume d’acqua dolce”. Ci sono diversi villaggi attorno al lago, tra essi Chong Keats, molto turistico; il piccolo Banteay Mechrey, poi Kompong Phluk, con belle foreste di mangrovie, spesso completamente allagate nella stagione umida. Essenziale per la sussistenza degli abitanti delle sue rive, il suo ecosistema unico è stato dichiarato dall’UNESCO ambiente ecologico di primo livello e Riserva della Biosfera. Le dimensioni del lago Tonle Sap variano molto: verso la fine della stagione secca il lago misura solo da 2000 a 2500 chilometri quadrati, durante la stagione piovosa arriva addirittura a 12.000 kmq, aumentando la superfice per 6 volte. Cambia anche il regime, il “lago” inizia a scorrere verso l’interno, e la profondità aumenta da 3m della stagione secca a otre 15 metri di quella umida. Le comunità che vivono grazie alla pesca abitano in due tipi di villaggi, i villaggi galleggianti, costruiti su zattere di bambù legate fra loro e ancorate, e i villaggi fissi costruiti sulle alte palafitte alle sponde del lago in secca, che durante la stagione piovosa iniziano a galleggiare. Gli abitanti sono prevalentemente di etnia khmer, però ci sono anche molti vietnamiti e per questi ultimi la vita è più difficile. Loro sono costretti a vivere sull’acqua perché per legge non possono possedere la terra cambogiana. In passato abbiamo visitato una scuola vietnamita, con l’anessa chiesa (erano cattolici). Il loro villaggio – completamente galleggiante – comprendeva tutto, perfino un allevamento dei serpenti e degli alligatori, utilizzati – ahime – per la produzione di scarpe e borsette. Invece questa volta visitiamo Kompong Khleang, un villaggio fisso, protetto per la sua singolare architettura e ancora autentico. E’ il più grande e il meno turistico della zona, forse perché dista 50 chilometri da Siem Reap. al termine del tratto asfaltato, una strada in terra battuta si inoltra nel villaggio. Per accedere, bisogna comprare dei biglietti che aiutano gli abitanti a proteggere il loro habitat. Ai due lati della strada sorgono le case sulle palafitte. Vicino a ogni casa per terra sono distese le lenzuola con migliaia di piccoli pesci che in questo modo vengono essicati e conservati per la stagione umida. Nel porticciolo sul fiume ci imbarchiamo su una navicella, tutta per noi. Facciamo una piacevole gita attraversando i canali e costeggiando varie isole e isolette. Durante la navigazione placida osserviamo la pesca, il lavaggio dei panni, i bimbi che si tuffano nell’acqua, i momenti di relax nelle amache, lavori di agricoltura su terre emerse, i ragazzi che tornano da scuola in barca … così, tra mile foto aggiungiamo un villaggio complettamente galleggiante su zattere, vicino al lago vero e proprio, così vasto che sembra mare. E’ davvero immenso, non vediamo l’altra sponda. Il ritorno lo facciamo più veloci, in soli dieci minuti: Una decina di minuti di navigazione sulle calme acque e si torna indietro. E’ ora di visitiare il villaggio: ci sono bambini in divisa che giocano e guidano le bici, c’è una pagoda tutta aghindata con le bandierine, ci sono famiglie che ci invitano ad entrare nel pianoterra delle loro case, sotto le palaffitte. Esse, oltre a protteggere dall’inondazioni, servono per fare ombra, e sono così alte che sembrano trampoli. In questo periodo il livello dell’acqua è medio, la stagione delle piogge è finita da solo un mese e tutto cio che vediamo è molto pittoresco. È difficile immaginare che vengano allagate durante le piene del lago-fiume: fa impressione e provoca paura. Purtroppo, dobbiamo rientrare per cercare di fare un salto alla scuola d’arte Artisans Angkor di Siem Reap. C’è tanto traffico, quindi abbiamo solo una mezz’ora per visitare gli interessantissimi laboratori e un’ampia boutique, che espone davvero l’eccellenza dell’artigianato cambogiano. Certamente, i prezzi sono molto più alti rispetto alle bancarelle, ma lo è anche la qualità: gli artigiani di Artisans Angkor colaboravano (e colaborano tutt’ora) nella difficile ricostruzione dell’immenso parco archeologioco. Quindi anche qui si fa qualche compera: M e S trovano delle deliziose borsette per le proprie nuore, C compra una piccola statuetta, io un quadretto in lacca… certamente, non ricordo tutti gli acquisti… Dobbiamo rientrare in hotel per caricare le valigie e per cambiarsi, è giunta ora di andare all’aeroporto. Quando arriviamo, ci aspetta la notizia – ormai abituale – che il volo è in ritardo. Giriamo tra i negozietti, facciamo qualche acquisto anche qui. Ci consoliamo all’idea che quando prenderemo la coincidenza a Singapore, aspeteremo meno. Ci spiegano che il ritardo capita a motivo dei numerosi bagagli che devono caricare. Alla fine, con tutte queste ore di volo che abbiamo fatto, abbiamo imparato che è importante volare bene e arrivare a destinazione.
XX la campagna cambogiana. E’ il percorso che si fa sempre, o andando da Siem Reap verso Phnom Penh o viceversa. Carichiamo le nostre valigie sul pullman e partiamo verso Phnom Penh. Abbiamo nuova guida, Kin, che conosco già…Ho communicato anche a lui quali sono i nostri interessi, che vanno sempre oltre le visite previste. Kin è molto disponibile e gentile, ci racconta del suo paese, della sua piccola figlia e del suo matrimonio combinato, ancora tanto in uso in Cambogia. Percorriamo i primi 80 km, la maggior parte su strada statale in buone condizioni, e poi prendiamo una deviazione per Beng Mealea, il cui nome significa lago del loto. E’ un tempio dedicato a Vishnu, ma nella statuaria sono presenti anche alcuni motivi buddhisti. Dallo stile si suppone che e stato eretto da Suryavarman II, costruttore di Angkor Wat, nonostante non sono state trovate le testimonianze scritte. Il complesso è composto di una base con tre gallerie concentriche, unite dai chiostri cruciformi, come ad Angkor Wat, ma a differenza di quello, è disposto su un solo livello. Le decorazioni sono di ottima fattura, nonostante il complesso, non essendo mai restaurato, è in pessimo stato di conservazione, che garantisce qualche emozione in più durante la visita. Oltrepassando il ponte con il Naga, ci troviamo nel sito. Ci incamminiamo sui ponticelli di legno sospesi sopra le rovine ammirando la stupenda lavorazione della pietra che s’abbraccia stretta stretta con rami, radici e fogliame; quindi scendiamo nelle gallerie completamente buie, e infine ci arrampichiamo per salire al “belvedere”. Un tempio bellissimo… Saliti in pullman, facciamo la prima sosta presso un chiosco che vende il riso cotto in bambù, chiamato kalan, molto buono. Segue una sosta al ponte di Spean Praptos, costruito in arenaria da Jayavarman VII. Si trova sull’antica strada reale, nelle immediate vicinanze della cittadina di Kampong Kdei. Presenta la classica struttura khmer a “falso arco” con 21 campate ed è lungo 87 metri, largo 17 ed alto 14. L’estremità e coronata dai guardiani nāga a nove teste. Tuta la strada è affiancata da un ingegnoso sistema di irrigazione, anch’esso prodotto dalle straordainarie capacità ingegnerstiche del popolo khmer. In seguito ci fermiamo per assistere alla antica modalità della soffiatura del riso, fatta con un macchinario in legno che si aziona con i piedi. Ci lavora l’intera famiglia che ci permette di vedere anche le loro case sulle palafitte, veramente povere … scambiamo sorrisi, non abbiamo più le matite e caramelle… ci viene l’idea geniale di aprire le valigie e regalare qualche maglietta…. Quando arriviamo al Kompong Thom ci fermiamo al ristorante Sambor village, situato sulla riva di fiume Stung Sen. Qualche minuto dopo l’arrivo salta la corrente, e il caldo si fa sentire subito. I proprietari fanno partire i generatori e Kin ci spiega che l’energia elettrica rappresenta un grande problema per la Cambogia. Anche il ristorante è costruito sulle palafitte, ha una bella piscina e un giardino paradisiaco. Dopo il pranzo ci fermiamo presso un laboratorio di marmo, stracolmo di statuette del Buddha di tutte le dimensioni e in tutte le posizioni. La zona di Kompong Thom cela numerosi siti archeologici molto interessanti: ospitava anche la capitale del antico regno di Chenla che prosperò tra il VI e il IX secolo. Certamente, non possiamo visitare tutti i siti che meritano in una giornata, ci vorebbero diverse settimane … Ogni nostro itinerario propone qualchosa di diverso. A volte visitiamo questa capitele: Sambor Prei Kuk: un sito pre-angkoriano, abitato probabilmente già in età neolitica. A partire dal VI/VII secolo d.C. i due fratelli Bhavarman e Mahendravarman costruirono una città chiamata Iśanapura, una delle capitali del regno di Chenla. La città comprendeva più di 100 templi in mattone disseminati nella giungla, tra cui alcuni attualmente visitabili. Tra le scoperte più importanti, la più antica iscrizione in lingua khmer. Dopo la trasferta della capitale ad Angkor, Isanapura subì un certo declino, ma rimase comunque un centro importante anche in epoca angkoriana. Come molte altre città cambogiane, venne abbandonata nel XV secolo, per venire riscoperta dagli studiosi occidentali agli inizi del Novecento. Alla visita di questo sito si puo aggiungere una veloce di sosta presso qualcuno dei numerosi templi della zona: il Prasat Kuhek Nokor, costruito nel X/XI secolo in laterite e arenaria, adorno di fiori di loto, oppure solitaria Kok Rocha, una torre risalente all’XI secolo ed oggi pendente; oppure il più vasto Phnom Santuk, uno dai luoghi più sacri della Cambogia, con una pagoda e un Buddha sdraiato recente, accanto ai Buddha più antichi, immersi in un panorama magnifico e molti addobbi davvero kitsch. Noi ci dirigiamo verso Phum Prasat, che troviamo dopo 30 km della Route n°6. Attraversiamo un villaggio dove un sciame di bambini si mette subito ad accompagnarci verso il nuovo Phum Prasat, una recente costruzione. Ci fermiamo con dei bambini: cantano, contano, ridono… Invece il tempio antico è di forma piramidale, ed è splendidamente decorato. Fu eretto nel periodo Chenla, cioè nel VII/VIII secolo e come tale il più antico che abbiamo visto. M. ha perfino incontrato – per fortuna solo da lontano – un cobra vero che faceva il guardiano del tempietto antico. Non bisogna dimenticare mai che siamo nei tropici e che non bisogna adentrarsi fuori dei sentieri battuti… io invece mi sono fermata con una bambina, a cui ho dato l’ultima penna che avevo. Cercava di spiegarmi qualcosa, non ci capivamo, ma alla fine si è messa a ballare una danza apsara: abitino rosso a pois bianche, dita piegate all’indietro come steli di fiori al vento, scure gambe mosse da una musica che solo lei sentiva. Mi comuove tuttora pensarla … E’ meravigliosa, chiedo di ripetere la danza perche voglio filmarla, ma lei mi ripete “hot” che interpreto all’inglese, caldo. Arrivata in pullman, chiedo Kin cosa significa hot che risponde che significa “stanca”. Proseguiamo. La tappa seguente è Skoun. Ci fermiamo per sfruttare i bagni, ma molto più interessante è il mercato dove vediamo grosse tarantole, vive e fritte, allevate in buchi nel terreno dei villaggi circostanti. Il ragno fritto è la specialità del luogo, forse sorta durante il regime dei Khmer Rossi, a causa della scarsità di cibo, forse esisteva anche prima …Proseguiamo per Phnom Penh, di cui ho parlato all’inizio. Il crepuscolo cambogiano è come sempre magnifico. Kin ci racconta della sua città, la capitale della Cambogia, cresciuta troppo in fretta e senza nessun piano regolatore. Per entrare nella città bisogna attraversare vastissimi, popolosissimi e poverissimi sobborghi. Qui in Cambogia la povertà e molto evidente: vedendo tutte queste persone malnutrite e malvestite quasi ci vergognamo della bellezza del albergo in cui stiamo per entrare.
XX. quando si ha qualche giorno in più. Durante questi anni in cui ho accompagnato i viaggi in Cambogia, ho avuto i viaggiatori che si fermarono qualche giorno in più in questo bellissimo paese.
Le mete che si possono raggiungere facilmente da Phnom Penh sono molte, con un gruppo abbiamo creato un itinerario che comprendeva tutte (o quasi) antiche capitali della Cambogia. Oltre Sombor Prei Kuk e Angkor, ci sono due luoghi dalla grande importanza storica postangkoriana. Il 1431 rappresenta per la Cambogia una triste data, la ricchissima Angkor venne saccheggiata dal re siamese Boromoraja II, dando inizio ufficiale ad un periodo di decadenza. In realtà il declino era già in corso, con i siamesi che premevano dall’ovest e i regni Dai-Viet che premevano sui confini sudorientali.
La prima capitale postangkoriana fu Longvek, conquistata nel 1594 dai thailandesi. Di Longvek oggi non resta praticamente più nulla. Fu il re Ang Chan a scegliere il sito della nuova città iniziando i lavori nel 1553. Come nome venne scelto Longvek che significa incrocio, per sottolineare l’importanza commerciale della sua posizione geografica, confermata dalle recenti scoperte archeologiche. Gli scavi hann restituito l’immagine di una città murata dalla forma rettangolare, circondata da una fitta foresta di bambù e dai numerosi laghi, al cui interno si potevano trovare porcellane cinesi e giapponesi, manifatture per la lavorazione del bronzo e dell’argento, negozie e palazzi nobiliari
La poco distante Oudong è stata sede dei sovrani cambogiani dal 1618 al 1866, quando la capitale della Cambogia venne spostata a Phnom Penh. La fondazione di Oudong coincise con un periodo di predominio dei vietnamiti, poiché il fondatore Chey Chettha II, contrasse matrimonio con una principessa vietnamita diventando vassallo della dinastia Le. Il luogo più interessante di Oudong è la collina Phnom Oudong, dove 509 gradini conducono alla sua sommità, con un tempio moderno che ospita una reliquia del Buddha.
Nonostante la più conosciuta ai turisti sia l’area attorno Siem Reap, è il sud del paese che rappresenta la culla della civiltà cambogiana. Da ricordare un’altra capitale, la più antica capitale preangkoriana: Angkor Borei, una piccola cittadina nella provincia di Takeo. Non c’è molto da vedere, nonostante sia stata abitata da circa 3000 anni, e nonostante che antica Vyadhapura era una grandiosa città cintata dalle mura. Fu l’ ultima capitale del regno di Funan, durato dal I al VI secolo. a cui segue Sombor Prei Kuk, di cui ho scritto prima.
Aggiungendo almeno un’altra giornata da Siem Reap si possono visitare due siti assoluttamente unici. Il Parco Nazionale di Phnom Kulen, a un ora e mezzo da Siem Reap con monumenti della civiltà khmer in uno splendido ambiente naturale. Si visita per vedere le cascate che scorrono da una montagna sacra formando lepiscine naturali, le incisioni falliche a Kbal Spean (il fiume dei mille linga) e un famoso santuario buddista. Prasat Preah Vihear, un maestoso tempio unico per la sua posizione sulla cima dei monti Dangkrek, nel pasato territorio conteso tra Cambogia e Thailandia. Considerato progenitore della tipologia del tempio-montagna, affonda le sue fondamenta in pietra fino al bordo della falesia, che precipita nelle pianure sottostanti, offrendo un panorama mozzafiato della Cambogia settentrionale collinare. La costruzione del complesso, durata tre secoli, attesta l’evoluzione dell’arte scultorea nel periodo di Angkor,
Un altro giorno per gli amanti della Cambogia coloniale, distesa lungo il fiume Sangker, Battambang è una delle cittadine coloniali meglio conservate del paese. Nelle vecchie botteghe francesi c’è un po’ di tutto, dal caffè del commercio equo e solidale alle gallerie d’arte. Nelle campagne dei dintorni, sorgono alcuni templi antichi che, sebbene non siano straordinari come l’Angkor Wat, sono meno affollati e meritano una visita.
Ovviamente, c’e tanto altro ancora da vedere, sappiamo bene che la Cambogia non è solo Angkor, come la Giordania non è solo Petra ne Perù solo Machu Pichu… ma fermiamoci qui.
XX Tutti i voli portano a Milano… Siamo a Malpensa. I bagagli sono arrivati tutti, il pullmino aspetta per portarci a casa … arrivederci alla prossima avventura.